13 storie inospitali

13 storie inospitali (Lavieri, 2010)

di Hans Henny Jahnn

L ‘ultima volta che ho avuto tra le mani un libro della collana Arno di Lavieri, si trattava dell’ottimo Tecniche di basso livello di Gherardo Bortolotti, dunque mi sono avvicinato a 13 storie inospitali di Hans Henny Jahnn già carico di aspettative positive. Nonostante tali premesse, sono rimasto sbalordito. Sbalordito fin dal primo racconto, Ragna e Nils, uno dei più vecchi – vale la pena ricordare come 13 storie inospitali sia composto da sei racconti tratti da Perrudja, del 1929, e sette tratti da Fluss ohne Ufer, trilogia i cui volumi uscirono rispettivamente nel 1949, nel 1950 e nel 1961 – nel quale da subito si impone agli occhi del lettore una prosa scarna, di brevi e perentori periodi, fortemente connotata nella direzione della fiaba o della leggenda, e a tratti addirittura illogica, almeno nel senso di un completo rifiuto dei rapporti causa-effetto di marca psicanalitica. Il secondo racconto, La storia dello schiavo, ha confermato il mio sbigottimento: avevo difficoltà a collocare l’autore, tanto all’interno della letteratura tedesca che di quella mondiale; alcuni elementi mi ricordavano i racconti fantastici di Hoffmann; altri potevano ricordare Döblin, ma l’armonia, quella era affatto diversa; altri ancora mi portavano altrove, in territori propri del mito. Mito norreno, a prima vista, ma in seconda lettura anche – e forse più – ellenico e orientale. Ho pensato che avrebbe potuto essere così uno scrittore appartenente al “canone” di un’altra umanità. Di un mondo parallelo. Sul momento ho creduto che questa sensazione si originasse semplicemente dalla mia relativa ignoranza in letteratura tedesca, ma è bastato fare qualche superficiale ricerca per scoprire che era condivisa dai più eminenti studiosi che si fossero avvicinati all’opera di Jahnn, un fiume segreto, che scorre sotterraneo accanto a quello sul quale naviga e dal quale si abbevera normalmente chi legge e chi scrive. Mi è venuto in aiuto Jahnn stesso col terzo racconto, L’orologiaio, che insieme all’ottavo, Kebad Kenya, è quello che più ha il sapore di un manifesto – o di una maschera funebre, come viene suggerito da Domenico Pinto nel risvolto di copertina. Ma non rovinerò al lettore il piacere di leggerli, e scorgervi in controluce gli intenti, l’approccio dell’autore. Se mai poi è importante: ad essere importante è, credo, il fatto che Jahnn entri a gamba tesa sui cosiddetti “grandi temi” – la morte innanzitutto, e poi l’eros, la possibilità della metafisica, l’estetica, il tempo, il doppio, la modernità… (potrei continuare) – e lo fa a modo suo, in un modo, forse, che ci sarebbe oggi chiaro (e caro) se certi germi intellettuali e sensuali, fioriti nello spaziotempo di Weimar, non fossero stati spazzati via dall’avvento del nazismo. Spazzati via assieme ai loro “genitori”, a parte uno: quel Jahnn che anche dopo la guerra, misconosciuto, ha continuato sulla sua linea, una linea idiosincratica, panerotica, a tratti spietata (quasi imbarazza la durezza dello scrittore nei confronti del suo protagonista, in Cavalli rubati o ne Il tuffatore), aspramente critica nei confronti della civiltà occidentale, e tuttavia del tutto priva di una risposta, di una qualsiasi alternativa, se non una straziante, costante nostalgia dei sensi.
Il titolo originale dell’opera è 13 nicht geheure Geschichten: il termine “nicht geheure” era utilizzato da Heidegger nel senso di “non familiare”, e in effetti non è familiare (per me, ma sono pronto a scommettere che non lo sarà per nessun altro lettore), il mondo di Jahnn, e proprio per questa unicità, oltre che per la sua lampante bellezza, vale la pena scoprirlo. Ai lettori non posso dunque che consigliare la lettura di questa mirabile raccolta, arricchita da una postfazione di Andrea Raos e da un saggio di Ferruccio Masini; agli editori, il recupero e la traduzione di Fluss ohne Ufer, un “Fiume senza rive” in cui sono ormai certo che sarà dolce immergersi e forse anche morire, lasciandosi poi trasportare dalla corrente come i molti “morti per acqua” che popolano la presente raccolta.

Vanni Santoni