L’ascensione di Roberto Baggio

A me a un certo punto il calcio cominciò a fare schifo: ci giravano troppi soldi, soprattutto troppe chiacchiere. Tutte quelle trasmissioni che parlavano sempre delle solite squadre, quelle che contavano, mi disgustavano: non c’entravano niente con la gioia che provavo da bambino nel comprare le figurine Panini, nell’ammirare i volti dei gregari o degli attaccanti che con i loro gol salvavano le squadre di provincia; perché io ho sempre tifato per quelle, con una breve parentesi interista (guarda caso quando l’Inter non vinceva mai e ne buscava sempre al Santiago Bernabeu). Poi, un giorno, successe qualcosa: stavo tornando da Siena verso Roma, quando alla radio arrivò il pareggio del Como contro il Livorno. Era il 2004 e ancora una volta venivamo beffati sul più bello: 3-3 all’88’ e tutti a casa a sognare la serie A in televisione. Spensi la radio con rabbia e imprecai tra le curve della Cassia, stonando con quel paesaggio idilliaco di cipressi e terra grossa. Dopo poco, quasi per forza d’inerzia, la riaccesi, e quello che sentii fu roba d’altri tempi, degna d’un’epica che il calcio sembrava aver smarrito in mezzo alla fiumana di vaini (i labronici li chiamano così, i quattrini): il Livorno aveva vinto con gol di Vigiani al 91′ e di Cristiano Lucarelli al 93′! Cristiano Lucarelli: quanto tempo l’avevamo atteso, e le gioie e i dolori che ci ha dato con la maglia amaranto son bastati a ripagarmi di tutto lo schifo di quel calcio che non mi garbava più (penso che ci vivrò di rendita, e che continuerò ogni tanto a rivedermi i suoi gol e il suo modo di festeggiare col pugno alzato, e quell’onda d’urto che era il Picchi, con tutta la simbolica e la mistica comunista esposta in curva).
Tutto questo giro di parole per dire che la stessa sensazione, lo stesso magone, m’è venuto a leggere questo libro scritto a quattro mani da Salimbeni e Santoni: dietro la storia di Roberto Baggio, eterno eroe mancato, si respira un’epica che ricorda il calcio d’altri tempi, anche se di anni ne son passati pochini. Inutile dire che per come son fatto io, mi sono particolarmente innamorato delle pagine sul Brescia di Carletto Mazzone, perché in quella squadra di gregari che giravano intorno al loro condottiero, prima disonorato e poi risorto in provincia, non potevo non leggerci in controluce anche la storia d’amore tra Cristiano Lucarelli e la maglia amaranto.
E allora godetevi questo incipit, e poi leggetevi il libro, che è una poesia per i piedi e per le mani: e non pensate che non c’entri niente il calcio con la letteratura – o vi siete già dimenticati di Ezio Vendrame che in pieno fuorigioco lancia a Piero Ciampi i suoi versi?

Simone Ghelli

“Rigore!”
“Macché rigore!”
“Rigore, rigore!”
“E batti codesto rigore! Tanto lo sbagli!”
Era un bel giorno di marzo, a Firenze. Sorbivamo limonate, le schiene poggiate sul bordo della fontana di piazza Santo Spirito, e guardavamo i ragazzini giocare a pallone. Un venticello fresco muoveva le camicie e le fronde degli alberi; i raggi del sole assopivano le parole.
La fontana, il vento, il pallone, una limonata: il giorno seguente sarebbe stato uguale e così quello dopo ancora. Dal fondo della piazza spuntò tuttavia un cappello. Ondeggiava lento fra gli ombrelloni dei bar, sormontato da un’aureola di fumo. Sotto al cappello, un vecchio completo di gabardine e una valigetta sdrucita. Era l’Editore. Così, senza troppa fantasia, veniva chiamato nella zona, dato che quello era il suo mestiere. Ma con la E maiuscola e questo, soprattutto, per via dell’anzianità. Molte erano le storie che gli ruotavano attorno. C’era, nel quartiere, chi vociferava fosse centenario, attribuendogli battute di pesca con Hemingway e partite a scopone con Svevo e Joyce. Chi, addirittura, caldeggiava l’ipotesi dell’immortalità. Parlava con un indefinibile accento straniero, non sorrideva mai ed era impossibile vederlo senza una sigaretta fra le labbra, avvolto da una trama di nebbia. Qualunque stagione fosse, qualunque ora fosse, piovesse o bruciassero le siepi, vestiva sempre alla stessa maniera. Quando alzò la tesa del cappello in segno di saluto capimmo che veniva verso di noi. Ci fissava dritti negli occhi.
Stroncati dall’imbarazzo tirammo fuori un pacchetto di sigarette e glielo porgemmo. Lui buttò il mozzicone che aveva fra le labbra e alzò appena la mano in segno di rifiuto. Poi prese di tasca il suo pacchetto di MS, ne estrasse una e la accese.
“Ho un lavoro,” disse.
Ci rianimammo, ci guardammo, balzammo in piedi.
“Un lavoro per voi,” e prese una boccata dalla sigaretta. Si guardò intorno. Sputò tre, quattro anelli di fumo e li seguì contorcersi e diradarsi:
“Voglio un libro su Roberto Baggio.”
L’emozione si stemperò in un confuso sconforto. Il cuore ci batteva più forte, ma la mente non riusciva a trovare un punto fermo. Quelle due parole, quel nome e quel cognome, suggerivano un universo familiare, ma non riuscivamo a ricordare bene quale. Alla stessa maniera di chi, svegliatosi bruscamente nel cuore della notte, si ritrova, gli occhi sbarrati e la respirazione alterata, a cercare sul soffitto i protagonisti perduti dell’ultimo sogno, mormorammo:
“Roberto Baggio?”
“Questo è il nome.”
“L’… Allenatore?”, la buttammo là.
L’Editore scrollò il capo.
“Il… Telecronista?”
Di nuovo una scrollata di capo.
“C’entra col calcio, vero?”
L’Editore prese una lunga boccata e annuì:
“Raffaello, il Coniglio Bagnato, il Divin Codino, l’eterno incompreso, quello che secondo molti è il più grande calciatore italiano di sempre.” Poi ripeté: “Voglio un libro su Baggio. Per non dimenticarlo.”
Noi stessi lo avevamo dimenticato, cacciandolo chissà dove, in quel cantuccio di memoria che si riserva ai sogni interrotti, alle piccole delusioni amorose, alle chimere e alle aspirazioni che non sono riuscite a guadagnare il cielo. L’editore continuava a parlare: “La storia di Baggio è innanzitutto una storia di gol. Lasciate che vi racconti.”

Il racconto dell’editore

Supponiamo arrivi un giorno in cui qualcuno ponga la fatidica domanda. Supponiamo sia sera, l’ora di cena. Un ritrovo fra conoscenti. La tavola è apparecchiata e gli ospiti cominciano a scambiarsi vassoi ricolmi di pietanze, caraffe di vino, olio, pepe e sale; qualcuno si alza per recuperare un coltello, altri fanno tintinnare i bicchieri per un brindisi, altri ancora mangiano in silenzio. Aleggia una specie di noia, un impaccio.
Nell’imbarazzo dell’inizio cena sono pochi quelli che si ritagliano uno spazio, che impostano e replicano e giocano a tutto campo. Supponiamo, quindi, un banale percorso di argomenti: famiglia, lavoro, politica. Dalla politica si passa all’immoralità della politica; dall’immoralità della politica a quella di politici, senatori e industriali, padroni di società televisive, sportive, petrolifere, assicurative. Supponiamo che qualcuno, magari per risparmiarmi l’inevitabile inclusione degli editori in quella manica di filibustieri, prenda la palla al balzo e si diriga di petto verso il calcio e che tutti, in un’intuizione di sollievo, alzino gli occhi al soffitto. Nella tavola si rianimano le voci. D’un tratto ci si ricorda quanto era buffo Cerezo con i capelli ossigenati, saltano alla mente le capriole di Faustino Asprilla e la papera di Zenga, il sale di Anconetani, l’acqua santa di Trapattoni o il trenino del Bari; ci si chiede che fine abbia fatto Baresi, saltano fuori Stromberg, Centofanti, Zavarov, Lalas, Bruno, Otero; c’è perfino chi, folgorato in una sua personale Damasco, ricorda Marco Zoratto, il mediano brevilineo e un po’ sgraziato che una volta fu convocato in nazionale, a trentasette anni suonati, da Sacchi ovviamente, e da Sacchi, ovviamente, si passa a Baggio, si prova a ricordarne i gol in nazionale, quelli al Real Madrid, alla Bulgaria, alla Nigeria e alla Juventus di Van der Sar, uno più bello dell’altro. Supponiamo adesso che qualcuno, un provocatore, di certo, metta la mano sulla mia spalla e domandi:
“E il nostro amico Editore, qua, che se ne sta zitto a mangiare, che ne pensa? Qual è il gol più bello di Roberto Baggio?”
Ecco, in quel preciso istante, smetterei di mangiare. Ci sarebbe un tintinnare di posate, un soffio di gelo. Sulla tavola calerebbe il silenzio.
“Non so. Ha fatto tanti gol.”
“E certo, comodo così! Tanti e tutti ugualmente belli, immagino,” dirà il provocatore.
“Brescia-Juve. Stop al volo a seguire. Van der Sar rovina a terra. Baggio la mette nella porta vuota,” taglierò corto.
“Ma questo lo abbiamo già detto noi!”
“È che ce ne sono tanti. Troppi.”
“Per esempio? Io, per esempio, di Baggio ricordo solo quell’episodio lì, quel rigore… Dov’era? In America?”, incalzerà lui.
“Il gol da calcio d’angolo,” dirò allora. “Sempre ai tempi di Brescia.”
“Ah, non lo ricordo.”
“Calcio d’angolo battuto sul primo palo. Contro il Lecce. Con Chimenti che incoccia incredulo contro il palo e un difensore che tenta di salvare la palla di testa. Bellissimo.”
“È quello il gol più bello. Sicuro?”
“Ce n’è un altro. Non ricordo contro chi… Mi sembra in coppa Uefa. Baggio dirotta tutta la difesa, trascinando la palla a piccole falcate. Non punta l’avversario, non lo ubriaca. Taglia la retroguardia per linee orizzontali, trottando. Gli avversari sono una minaccia costante, ma, non si sa come, non lo sfiorano. È come se ci fosse una forza che lo protegge. Una potenza che crea una zona d’ombra, di ammirazione: di discrezione. Un campo magnetico. La palla è sempre lì, sul filo, ma non appena il difensore allunga il piede, Baggio dà un tocco e avanza, sospende la minaccia. Fragile, ma intoccabile. Avanza e gli avversari cadono per terra, letteralmente, con le gambe in aria. Come nel gol alla Cecoslovacchia ai Mondiali del 1990. Anche quel gol è bellissimo.”
“Più bello di quello che hai appena citato?”
“Straordinario. Se osservi bene, sembra impossibile che Baggio riesca a calciare il pallone. Non è tanto la rapidità del gesto che gli permette di incastrare la palla dove vuole. C’è qualcosa di diverso. E non è neanche un gioco di magia: Baggio non nasconde la sfera; non la rende invisibile. È come se in quei tiri, che prendono in controtempo il portiere o si infilano nel sette, si liberasse del pallone in un atto di fatica suprema. Come se lo sudasse via. Guarda il gol al Napoli ai tempi della Fiorentina…”
“Il tuo nuovo gol preferito…”
“Sì.”
“Ah sì? E perché?”
“È uno dei gol più sofferti di Roberto Baggio. Nel finale dell’azione, dopo aver saltato come una gazzella due avversari, quando si trova davanti al portiere e lo ha superato, c’è un vuoto d’aria. Dopo quella fuga il tempo si blocca e tutto, all’improvviso, si fa pesante. Ogni volta che lo guardo ho un tuffo al cuore. Baggio è lì, davanti alla porta vuota e penso: ora sbaglia. Il pallone gli rimbalza sullo stinco e sbaglia. E invece Baggio se ne libera, con un enorme sforzo. Tutto esplode ed è gol.”
“Quindi è quello, il miglior gol di Roberto Baggio?”
“No. C’è un altro gol, sempre al Napoli. Punizione. Quello è davvero unico.”
“Come ogni gol che ti viene in mente.”
“Di più.”
“E perché?”
“È più emblematico.”
“Cosa c’è di emblematico? Baggio su punizione ne avrà segnati cento!”
“Diciotto, ne ha segnati. E quello era il primo.”
“Il primo gol su punizione?”
“Il primo gol in Serie A. Dopo quella partita ha preso il 10 viola di Antognoni e…”

Matteo Salimbeni  & Vanni Santoni

8 Responses to L’ascensione di Roberto Baggio

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  2. srmzgts says:

    grande Ghelli, bellissimo commento ^^ anche il mi nonno tifava così

  3. son nonno dentro, io ^_^

  4. signor ghelli, complimenti per davvero. m’hai fatto venir voglia di rileggerlo, il libro. per la 187° volta.

  5. SimoneGhelli says:

    Grazie sig. Zeno: in effetti meriterebbe.

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