Quel piano B che si chiama letteratura

Alcune riflessioni su L’arte del piano B, Per legge superiore, Zona, L’inferno del romanzo.

di Vanni Santoni

Qualche settimana fa ho ricevuto un libro – un bel libro, anzi: bella carta, ben impaginato, con la copertina spessa e, come si dice, embossed. Questo libro mi ha stupito tre volte. Innanzitutto mi ha stupito vedere che un piccolo editore indipendente, del quale fino a quel momento non avevo coscienza, e sì che abita a pochi chilometri da me – Piano B edizioni, Prato, leggo sul loro sito – produca volumi di siffatta qualità. Poi mi ha stupito vedere che un editore che si chiama “Piano B edizioni” pubblichi un libro che si chiama L’arte del piano B: coincidenza? Accordo? Manifesto d’intenti? Sincronicità? (La risposta, per i curiosi, è suggerita dentro al libro). Infine, mi ha stupito vedere che Gianfranco Franchi, il letterato fondatore e animatore di Lankelot, rivista letteraria improntata alla massima serietà, si fosse avventurato in qualcosa che sta tra il saggio di costume e la satira del saggio di costume. Franchi fa proprio un concetto della cultura popolare contemporanea – quello del “piano B” ovvero del piano alternativo, segreto e pronto all’uso in caso di impraticabilità del “piano A” – e lo declina in tutti i modi possibili, ne enuncia principi e applicazioni, ne inquadra i nemici e gli alleati, lo sviluppa e lo spiega sia filosoficamente che per esempi. E coglie l’occasione, parlando del “piano B”, per uscire dalla satira dei manuali di autoaiuto, e andare a parlare di molte cose; in particolare, io credo, di quelle che gli stanno a cuore, come il problema, di recente tornato ad animare il dibattito culturale, della pseudoeditoria:

Un vero editore del Piano B, quando compra certi quotidiani e trova le pubblicità di quei banditi legalizzati che sponsorizzano i loro concorsi-farsa in cui tutti vincono, e tutti vengono pubblicati, ma a pagamento (…) prende e s’infuria. Prende, s’infuria e si domanda quando, in Italia, avremo un governo così serio e appassionato alla letteratura e all’editoria da saper legiferare a dovere su questa materia, e da saper bandire e punire chi specula sulle emozioni e sull’inadeguatezza dei troppi scriventi italiani (…) e si domanda quando, in Italia, avremo una stampa così onesta ed etica da impedire a quei banditi legalizzati di pubblicizzare i loro concorsi sulle loro testate. Perché se Repubblica (…) avesse evitato di vendere la propria credibilità a chi si spacciava come editore mentre altro non era se non un falso tipografo, allora parecchie cose sarebbero state diverse. Pensa che emozione scoprire che a dare visibilità ai pirati era soltanto la stampa pedalina, gli house organ del Gran Corruttore: i veri lettori avrebbero subito stabilito un’analogia invincibile tra propaganda politica falsa, malvagia e marcia ed editoria farlocca, squallida e a pagamento.

Da questo brano, ma ce ne sarebbero molti, si desume che il libro di Franchi è anche un libro etico, oltre che strategico come recita il sottotitolo: un libro che propugna un modo d’essere, o meglio un modo per essere migliori. Il “piano B” di Franchi finisce infatti per andare oltre l’essere semplicemente alternativo e si configura in fin dei conti come la scelta dei giusti e dei puri. Per quanto mi riguarda, appartenendo alla scuola Leary sono sicuramente un uomo del piano C (il libro di Franchi tiene conto anche di noi, dedicandoci un capitolo ad hoc) ma a prescindere da quale sia il mio piano il fatto è che, dopo aver letto L´arte del piano B, vedevo piani ovunque. Per qualche giorno, anzi, ho catalogato la realtà in base alla diade “piano A”/”piano B”.

Così, quando ho visto che il mio “amico di twitter” Giorgio Fontana aveva scritto un libro di ambientazione giudiziaria – un giallo, di fatto, lui che, a parte un’incursione nella saggistica aveva sempre scritto letteratura mainstream (nel senso inglese e letterario del termine, ovvero narrativa-non-di-genere), ho pensato di essere di fronte a un “piano A”: una scorciatoia per fare qualcosa di facile pubblicabilità e ancor più facile vendibilità; qualcosa di mainstream nel senso più bieco del termine. È stato sufficiente cominciare la lettura di Per legge superiore (Sellerio) per capire che mi sbagliavo. O meglio per capire che

a) Non siamo di fronte a un autore manistream piegato al giallo ma a qualcuno che ha fatto una scelta precisa e ponderata, assolutamente letteraria, e soprattutto qualcuno che sembra nato per scrivere cose come questa: cose in cui, alla fine, la vicenda non è che uno strumento per portare a galla da un lato i nodi morali (e in Per legge superiore abbondano) e dall’altro quelli percettivi: i momenti migliori del romanzo sono forse quelli in cui Doni, il magistrato che la vicenda pone di fronte a gravissime scelte professionali ed esistenziali, guarda, osserva, percepisce, come un vecchio filtro ormai inadeguato alla contemporaneità, ma ancora buono, ancora sensibile all’anima profonda delle cose:

(…) sedere su una panchina nel centro di Milano, sotto i rami degli alberi: e allora non era più lì ma in una citta del centro Europa, una metropoli sobria e dignitosa – Vienna, Monaco, Parigi – dove forma e memoria coesistevano nell’ombra di uno scorcio.

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Scese fino ai sotterranei. Ammassi di pc rotti. Fotocopiatrici che non si sapeva come smaltire. Corridoi sporchi di calce che terminavano in portoni di metallo. Macchie di umidità. Si fermò nel mezzo di una sala deserta, di fianco a dei tubi cromati. Pronunciò nome e cognome a voce alta e ne sentì l’eco, e solo a quel punto si accorse di essere finito lì – di essere dove si trovava, senza alcun motivo. Il catafascio accumulato sotto un catafascio perenne. Il Palazzo formicolante e in eterno crollo, ma che non crollava mai.

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Faceva freddo e il cielo era grigio. Le luci dei lampioni rendevano il paesaggio una tavola uniforme, uno sfondo di La Tour senza alcuna fiamma: finché Doni non si accorse che la fiamma era lui stesso, era quello che portava con sé. Non c’erano altri fuochi da cercare e difendere lì fuori.

b) Quando la qualità letteraria supera una certa asticella, parlare di letteratura di genere non ha alcun senso.

E questo “punto B” mi porta a parlare – con grave e colpevole ritardo, aggiungerei – di Zona di Mathias Énard (Rizzoli). Altri più competenti di me a suo tempo ne avevano parlato, e infatti ricordo, forse dopo aver letto il post di Genna, di averlo preso in mano, in libreria, di averlo sfogliato e poi posato di nuovo, forse distratto da qualche altra copertina, forse fuorviato da una quarta che suggeriva qualcosa tra il noir e la spy story. Ma i libri fondamentali tornano a galla, hanno una propria voce che ti chiama – come le sirene, direbbe Énard – e nove mesi dopo mi sono scoperto a cercarlo. Con un po’ di tristezza ho preso atto che era già quasi del tutto sparito dagli scaffali, alla quarta libreria ne ho recuperata una copia, ventidue euro, un prezzo che certo non aiuta un libro a guadagnarsi quello status di best seller che ormai è l’unico permesso di soggiorno sullo scaffale che non scada dopo un paio di mesi. Non ho battuto ciglio e ho pagato, il libro ormai chiamava, e infatti ho trovato un capolavoro, non l’ho ancora finito (mentre scrivo sto a pagina 300 circa) e quindi non sono nella posizione di dire molto altro, ma già sento la necessità di consigliarlo, di prestarlo, di gridare l’ingiustizia di un mondo editoriale che sforna a getto continuo, oscurando libri che meriterebbero una vita commerciale più lunga. Subito prima di Zona leggevo L’inferno del romanzo di Richard Millet (Transeuropa), saggio divertente, provocante, ancorché a volte irritante, un po’ per la struttura – una serie di aforismi – un po’ per la visione del tutto francocentrica della letteratura e del mondo, e tuttavia valido, che consiglio a tutti coloro che scrivono o vogliono scrivere, specialmente per la sua qualità principale, quella di rimescolare quel tessuto più o meno digerito di classici su cui ogni scrittore europeo si è formato, e farne uscire nuovi pensieri e nuovi problemi, e mentre leggevo pensavo accidenti che staffilate Millet, quanta rabbia Millet, chissà come è messa male la letteratura francese contemporanea, e pensavo male, Millet deve essere un po’ stronzo, penso adesso, perché, insomma la letteratura francese contemporanea produce cose come Zona, e noi qua cose come Zona ancora non ne facciamo, dico “ancora” perché mi sembra che in questo momento la letteratura italiana contemporanea sia vitale, ci siano molti molti giovani – e meno giovani, ma comunque tutti giovani in senso letterario – che lavorano bene, che prendono la faccenda sul serio, e come ebbi già a dire una volta che a una affollata riunione di scrittori mi si diede la parola, spero che almeno una frazione di essi abbiano la voglia e il nerbo e la forza e il delirio necessari per alzare sempre la posta, per puntare sempre e solo in alto, per misurarsi con i classici, con i grandi temi, per rifiutare insomma il “Piano A” del libro facile, da scrivere in un annetto e riscrivere massimo tre, quattro volte, e abbracciare quel doloroso, lungo, poco remunerativo “Piano B” che è poi la letteratura.

2 Responses to Quel piano B che si chiama letteratura

  1. philomela997 says:

    Mi ha incuriosito molto la recensione sull’Arte del piano B! E’ proprio vero che in Italia si sfruttano gli scrittori improvvisati, a volte in modo palese e a volte subdolo, ma sempre squallido. 🙂

  2. lapennablu says:

    Concordo, sono incuriosita da “L’arte del piano B”, e mi è piaciuto moltissimo il tono appassionato dell’intero post. Credo che dire di qualcuno che “sembra nato per scrivere cose come questa” sia il miglior complimento del mondo. Condivido la speranza di vedere almeno una frazione di autori abbracciare il piano B. Grazie!

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