Il blasone immacolato del perpetuo arrossamento – #TUS3

la madonna sculaccia gesù bambinoPer l’appuntamento con i testi del reading Torino Una Sega 3 è il turno di Gabriele Merlini, che ha preso molto sul serio il tema della serata, ‘letture terminali’. Oltre al testo che proponiamo, Gabriele ha letto da L’orgia di Praga di Philip Roth.

Considerare il proprio lettore abituale – ammesso si possieda un lettore abituale: situazione non agevole dati i tempi – «il solo confidente che ci rimanga», è quantomeno sintomo di sensibilità e intimo desiderio di interscambio. Non complesso. Non biasimabile. Non raro. Più difficile mantenere simile posizione nei confronti dell’uditorio standard di un reading collettivo. Troppo chiasso. Troppo alcool. Troppo traffico. Troppi individui interessati ad altro.
Eppure, posto a conoscenza dell’esistenza di quella kermesse cittadina a tema letture terminali, subito apparve ovvio quanto tutti i problemi della mia vita sarebbero potuti scomparire davanti la specchiata onestà richiesta dalla performance. Da sempre infatti combatto una spietata battaglia con le letture e i termini. Curiosa genesi del limite, fino dalla prima consapevolezza di me riesco a leggere solo alla fine delle cose. Impegnarmi nei saggi, godere della prosa o fantasticare sui versi di una poesia unicamente a ridosso dei termini.
Mi spiego meglio.
Per motivi rapportabili alla necessità di ritrovare una maggiore stabilità emotiva, qualche tempo fa ebbi a percorrere migliaia di volte la tratta Pisa-Londra in aereo. Odio volare e trattasi di repulsione addirittura aumentata nel corso degli anni, in parallelo al costante rincoglionimento da depresso cronico che mi avvolge. Superfluo sottolineare quanto riuscissi a trovare la tranquillità necessaria per godermi una sana lettura giusto al termine del volo, o meglio a ridosso dell’atterraggio (che, per inteso, da tutti viene inquadrato come il momento più rischioso dell’intero spostamento.) Mentre si perde gradualmente velocità e quota impostando una discesa ad angolo costante che conduce il velivolo alla soglia della pista ed è un attimo spalmarsi come burro sbagliando manovra. Le mani mollano la posizione del pugno chiuso tipico di colui che sente la morte dal sapore di scoreggia a fiatare sul collo, e il cuore torna a battere più o meno normale. Il bianco delle nuvole trasfigura elegante nelle prime silhouette di strade e case e pensi ok, sei ancora sospeso però magari con qualche botta di fortuna cadendo potrai raccontarla ai nipoti. Ammesso qualcuno intenda ancora accoppiarsi con te per procreare. Leggi il resto dell’articolo

Di ombelichi e mondi immaginari

 Alcune riflessioni su Nina dei lupi, L’isola dei liombruni, Il senso del piombo, Nessun paradiso, Dreadlock!.

di Vanni Santoni

Si incappa spesso, tra blog letterari e pagine culturali dei giornali, nella parola “ombelicale”. Si dice che in Italia sia pieno di scrittori ombelicali, che il paese tracimi letteratura ombelicale, si grida e si auspica che la si faccia una buona volta finita con questi maledetti libri ombelicali. Io, che ho cominciato a scriver tardi, e ancora più tardi ho cominciato a leggere di libri, neanche capivo di cosa parlassero. Una volta ho chiesto a un amico scrittore, che mi ha detto: “Dai, tipo Philip Roth o Moravia!” A me Roth e Moravia piacciono molto, così quella volta sono rimasto un poco interdetto. Ma probabilmente il mio amico aveva fatto un esempio poco felice, e forse neanche lui aveva ben capito cosa fosse questa famosa letteratura ombelicale. Alla fine ho capito che il termine fa riferimento a romanzi in cui il sé – e un sé limitato, intimista, da coscienza con le porte ancora ben chiuse – è l’unico filtro; romanzi in cui non si disegnano immaginari, ambientazioni, labirinti, in cui non si aprono abissi di senso né si costruiscono mondi, preferendo stare in zona ombelico (e già che ci siamo masturbarsi pure).

A me pare che quelli che vedono ombelichi ovunque sbaglino, e che anzi in Italia, oggi, di mondi se ne creino parecchi, e che siano pure belli. Dirò di più: che si sia superato anche un complesso che avevamo in Italia nei confronti della creazione di mondi nuovi (ricordo che da adolescente mi chiedevo, affranto, perché Dylan Dog, che pure amavo, si limitasse a scopiazzare questo o quel film horror, mentre in giappone Berserk aveva il coraggio di reinventare il nostro medioevo) e che si sia giunti non solo fuori dalla dimensione ombelicale, ma anche da quella derivativa.

Prendiamo per esempio Nina dei lupi di Alessandro Bertante (Marsilio), esempio lampante di questo superamento, di questa nuova abilità. Il tema post-apocalittico è di quelli che ti volti un attimo e ti scopri già con un piede nel cliché – anche un gigante come McCarthy ne La Strada a volte cade nel madmaxismo – e invece Bertante riesce a declinarlo a modo suo: con più o meno volontarie suggestioni pop di diverso ordine – qualcosa dentro a Nina dei Lupi a me ricorda La principessa Mononoke – ma soprattutto con la costruzione, effettuata senza rinunciare al discorso politico, di un immaginario nostrale, genuino e nuovo a un tempo: mentre lo leggevo, questo romanzo mi riportava all’infanzia, a quando giocavo a far battaglie o esplorazioni nelle foreste di Vallombrosa e vedevo nelle case di pietra mezze abbandonate, nelle imposte di legno pieno delle cascine di bosco, la possibilità di un’umanità diversa.

Parlando di suggestioni infantili, mi viene inevitabile passare da Nina dei lupi a L’isola dei liombruni, di Giovanni De Feo (Fazi), altro esempio di letteratura assolutamente non ombelicale: qui la traccia fondante risale evidentemente a Il signore delle mosche di Golding – con un pizzico di Lost – ma, come Bertante, De Feo riesce a creare un universo proprio, originale soprattutto nelle atmosfere. Un universo che affonda le sue radici nei ricordi di certe esperienze, comuni a chi ha avuto un’infanzia in quella classe media italiana che ancora ogni estate passava un mese o due al mare; nei ricordi di quella vita di gruppo fatta di innamoramenti e fazioni e serate in spiaggia, tipica dei preadolescenti in villeggiatura. Un universo solo apparentemente rassicurante: perché le età d’oro, come le preadolescenze, finiscono, e quando lo fanno proiettano all’orizzonte lampi di futuri possibili e senz’altro insanguinati.
E con foschi futuri possibili ha a che fare Nessun Paradiso di Enrico Piscitelli, da poco uscito per Round Robin, che dopo un inizio apparentemente intimista –  «Avrei voluto fare boxe… » – va altrove e conferma che in questo momento in Italia si lavora sugli scenari ben più che sugli ombelichi: sebbene il tono del romanzo di Piscitelli sia molto più strettamente politico di quelli di Bertante e De Feo, la sua Venezia pure è un mondo nuovo, all’interno di un altro mondo nuovo: il suo essere già di suo postapocalittica ribalta le carte, ne fa un luogo di resistenza e di sentimento in un sistema distopico e opprimente.

Contro il sistema, ma in direzione del tutto opposta a quelli di Piscitelli, si muovono i protagonisti de Il senso del piombo di Luca Moretti. Ma come, dirà qualcuno, cosa c’entrano i NAR? Quelli esistevano per davvero, quella è storia.  È vero, è storia. Ma è una storia schifosa, di brutta gente, di gente cieca e assai presto strumentalizzata, e dunque una storia ben diversa da quella raccontata da Moretti, che ridisegna lo spontaneismo armato neofascista in un quadro epico – ribellistico, addirittura – nel quadro insomma, viene da pensare, che immaginavano loro: e dunque ecco il punto, e la bontà, de Il senso del piombo: il creare un universo nuovo, una dimensione interpretativa del tutto finzionale di fatti reali, grazie alla quale è tuttavia possibile trovare nuovi spunti di interpretazione dei fatti.

Proprio dall’incrocio tra reale e immaginario nasce Dreadlock! di Jacopo Nacci, appena uscito per la collana 9volt di Zona. Reale come la Bologna studentesca, immaginaria come un supereroe rasta che vi si muove, un supereroe la cui identità segreta si manifesta quando il suo alter-ego, un normale studente di nome Matteo, fuma una speciale canapa cresciuta sulla tomba di Re Salomone. Tutto, da queste premesse, potrebbe far pensare alla boutade, all’ennesima parodia, rivisitazione o messa in discussione del genere supereroistico. E invece no: con una perizia e una dedizione che mettono i brividi, Nacci prende tutto maledettamente sul serio, e usa anzi lo spunto supereroistico per dare vita a un mondo immaginario – un mondo dove esiste la Bologna studentesca e anche il cazzuto supereroe Dreadlock – non solo coerente formalmente e filosoficamente, ma anche in qualche modo consapevole dell’essere maya, illusione, come del resto tutti i mondi, innanzitutto quello di chi sta scrivendo – o leggendo – questo pezzo, con buona pace dei nostri ombelichi. E dunque, se come dice Nacci (o gli Steel Pulse),  «Babylon makes the rules », ciò non toglie che questo potere lo abbiano anche gli scrittori.

Everydog

«Cadendo sul coperchio di legno della bara,
il terriccio mandò quel suono che ognuno di noi
assorbe nel proprio essere come nessun altro.»

P. Roth, Everymen

Il cane lo avrebbero seppellito in serata. Il ragazzo coi boxer da mare e il petto nudo, bagno di pelle e sale sotto le ascelle non più glabre da un giorno. Ma scavava. Con suo padre si davano il turno, pala e piccone sulla pietra viva. Avevano iniziato a scavare che c’era ancora luce. La terra rossa fra i cespugli di lentisco, a qualche metro dalla casa. Le pietre gli avevano fatto spostare più volte il diametro della fossa. Le sradicavano facendo leva col piccone. Poi ancora pala. Pulivano la terra, al momento pulivano solo la terra, l’atto fisico – il lato tecnico che dilata il rito – per non meditare la morte, d’un animale, che non va mai rimasticata. Toglievano terra per ridargliene, cibarla: così va detto, così è andata.

Mai il ragazzo aveva visto un cane partecipare al funerale di un altro cane. La cagna nera – le mammelle gonfie – stava immobile, guaiva. Il muso lungo, curioso. Attorno alla casa un vigneto di uva scura e secca, un’altra villetta e in fondo una pineta. Nella pineta un villaggio turistico, altri cani. Il motivo per cui guaivano di notte, eccolo, una cagna che aveva appena partorito. Le notti insonni di quell’estate spiegate da un’epifania nera.
Adesso accucciata. «Non guardarla» disse l’uomo, poi chiese al ragazzo se volesse il cambio. Il tramonto. No, nessun cambio, nella fatica ammazzava il pensiero. Lo scambiare pala e piccone, veniva in mente la torta per il compleanno della mamma, tanti anni fa, per i polsi stanchi gli strumenti: frusta e setacciatore, cioccolata in polvere su lievito come terra rossa adesso. Leggi il resto dell’articolo