I capolavori ritrovati della poesia – Washington Albertus Grapevine

Un’operazione di salvataggio a cura di Ennio Canallegri e William Kessel Pacinotti

HORNETS (Washington Albertus Grapevine, Street Rhymes, 1973)

Nocturne hornets
breathe the smoke we are in
so shine jackets
in blue lightnin’

This is the war buddy
this is our struggle
to see the enemy
down in the puddle

The Hornets win
they loose, the Panthers
open the houses
and light your lanterns

WASHINGTON ALBERTUS GRAPEVINE (Hamlet, NC, 23/9/1955 – Charlotte, NC, 17/7/1974)

Alla fine dei sixties, in un paese dove bastava poco a trasformare una striscia di cuoio o di tela messa in verticale nella mappa del Vietnam, e a sacramentare davanti a una foto qualsiasi di Nixon, il nerissimo Washington Albertus (Wash per gli amici, Albertus per la mamma e Worthington Albione per il nonno semi-demente che viveva con loro) cercava (e trovava) la sua strada.
E fu tra i marciapiedi, gli idranti e l’asfalto incatramato di Charlotte che Wash descrisse la sua breve e favolosa parabola. Abile mentitore e rapper ante litteram, riuscì a convincere i ragazzi della gang del quartiere, gli Hornets, che quello che gli serviva era un leader atipico, che sapesse usare le parole come una Browning e la voce come un coltello a scatto. E fu proprio nel periodo in cui a guidarli fu un poeta di strada, che gli Hornets fecero il culo agli storici avversari, i Panthers.
Il destino di un nero che vive per strada rompendo il cazzo a tutti e cercando rogne è segnato. Eppure a freddarlo non furono i Panthers, ma quello svitato di nonno Cletus che in una torrida mattinata di luglio, entrato in cucina gli lanciò addosso un bollitore. Si giustificò con la storica frase “Non pensavo fosse Worthington. Lo avevo scambiato per Nixon”.
Pare che nel 1988 quando Charlotte è sbarcata nella NBA, il presidente della squadra, impegnato a casa di amici in una sessione di gioco della bottiglia (svoltato poi ad orgia e finito poi a ramino) per pagare pegno abbia lasciato la scelta del nome da dare al team al custode Coliseum, lo stadio del basket, il cui figlio era il braccio destro di Grapevine ai tempi d’oro. Va detto comunque, che il capitano dei Charlotte Hornets, Kelly Tripucka negli anni ha sempre fermamente smentito questa tesi.

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