Generazione o gruppo?

In questi mesi si parla molto di Generazione Tq. Ne hanno scritto i quotidiani – L’Unità, Repubblica, Il giornale, il Corriere, il Sole24ore, il Riformista, La Nuova Sardegna, Il manifesto, Il Fatto Quotidiano – se ne parla, tanto, in Rete – Google mi dà oltre 50.000 risultati. C’è un blog wordpress di Generazione Tq, con tre manifesti programmatici, e l’elenco dei firmatari di questi manifesti. I commenti, sul blog, sono chiusi, ma si rimanda ad altri luoghi della Rete, nei quali si sta discutendo della questione.
Ora: Generazione Tq, ovvero generazione trenta/quaranta (anni). Ma cos’è? Su minima et moralia, blog collettivo, costola della casa editrice Minimum fax, c’è scritto: “Generazione Tq – i lavoratori della conoscenza della generazione dei trenta e quarant’anni”. Non ho trovato altre definizioni. Leggi il resto dell’articolo

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 12

Queste “bestie piacevoli da osservare”, come scrive la cronista precedentemente citata, costituiscono quindi un campione prelibato di questa generazione sciatta e deboluccia che sa darsi forza solo nel branco, come dimostra la moda di manifestare per le vie del centro, di mescolarsi per allungare il serpentone e bloccare la marea di onesti lavoratori nelle loro scatole di acciaio.

C’è poi da dire che il buono di quest’opera di gruppo, in cui si cercava di ricreare uno spirito d’altri tempi – quello delle lettere, e dello spirito da esse evocato – fu inquinato ben presto dal tarlo dell’ideologia, che prese la strada più dritta, quella dell’emulazione. Insomma, gli è che i cinque presero a prestito una personalità famosa ciascuno, forse per puro gioco, più probabilmente perché serviva loro a farsi forti di una sicurezza che non possedevan per natura – e che la pochezza dei loro lavori non contribuiva certo a edificare.

Quello che alle apparenze si presentava come il capo, condottiero di punta di questo astruso assortimento – forse perché proprietario dell’auto su cui viaggiavano, nonché vincitore in altezza e lunghezza dei piedi – si vantava d’esser l’erede di quell’Edmondo De Amicis di cui prese lo spirito socialista e l’attitudine da pedagogo. Egli si figurava insomma come buon maestro, anche se non ebbe meriti riconosciuti dall’Accademia della Crusca, come accadde invece per il suo illustre predecessore. Soprattutto, c’era nella sua scrittura questa tendenza a farsi carico di tutti i dolori del mondo, una dolenza che si tramutava però velocemente in indolenza: quella del lettore nei confronti di uno stile trombonesco e retorico, che bene incarnava la vera natura di lui e dei suoi compari, redenti salvatori di un mondo in cui non credevan più manco loro.

Insomma, più che usciti da un libro Cuore, i cinque si proponevano come l’ultimo boccone indigesto con cui avrebbe dovuto fare i conti un fegato appesantito: quello di un paese che aveva digerito robacce per decenni, e che ora che si apprestava a fare pulizia – di fannulloni e di criticoni – doveva difendersi dagli ultimi attacchi di un pensiero ormai esangue, alimentato da una manciata di globuli rossi come quelli di cui vi sto narrando le gesta.

Il peggiore tra questi, forse, era poi il toscanaccio dell’alta maremma, colui che si mise in testa di rifare il verso al Bianciardi. Era costui pervaso dall’idea di aver condotto una vita agra, per quanto fosse figlio unico e avesse potuto godere di tutto ciò che un uomo necessita, ma a volte certe menti sono così fervide da immaginarsi impedimenti anche laddove non vi sono, e la sua era certamente una di queste. Inutile aggiungere che il suo pensiero fu subito annebbiato alla vista di Milano, in senso più che altro metaforico, s’intende, poiché gli sembrò d’un tratto d’esser il protagonista del celebre romanzo di quel Luciano, che si augurava che “di qui sarebbe nata la solidarietà, di qui il modo della riscossa, un milione e mezzo di formiche umane da stringere e scatenare contro i torracchioni del centro, contro i padroni mori e timbergecchi, contro i loro critici tirapiedi, e fare piazza pulita d’ogni ingiustizia, d’ogni sporcizia, d’ogni nequizia”.

Con cotanto fervore egli riuscì a convincere gli altri, inizialmente scettici all’idea di sobbarcarsi un impegno sì gravoso; ma fu ben poca resistenza la loro, accecati com’erano dalla brama di successo. Soprattutto sollazzò loro il fatto di travasare l’opera nella vita, di portare insomma di peso l’immaginazione nella realtà, contraddicendo in parte le loro stesse intenzioni, che erano invece quelle di depurare la vita di tutta quella finzione che l’aveva resa tragicomica.

Simone Ghelli