Generazione TQ. Il manifesto letto da uno scrittore trentacinquenne fuori dai giri

Una cosa è certa: la generazione trenta-quaranta è ossessionata dagli anni Ottanta.
Li buttiamo nel cesso, poi li andiamo a riprendere e li laviamo con cura. Li poggiamo sulla mensola dell’ingresso e aspettiamo che si impolverino, poi li prendiamo e li nascondiamo nello stanzino. Un giorno, mentre stiamo decidendo se andare al mare o cominciare a scrivere la storia che ci ossessiona da qualche mese, ci ricordiamo che sono rimasti chiusi nello stanzino per tanto tempo e li andiamo a riprendere, controlliamo che sia tutto a posto, li guardiamo e li ributtiamo nel cesso, tirando lo scarico. Dopo due giorni facciamo un’incursione disperata nelle fogne e li ritroviamo. Ce li contendiamo con topi e scarafaggi e li riportiamo a casa. Pulizia e restauro e di nuovo in bella esposizione sulla mensola di casa con tanto di foto trionfale su facebook. Non riusciamo a capire se ci piacciono da morire o se li detestiamo, se sono stati la nostra palestra adolescenziale o la nostra dannazione culturale. Ci vantiamo di essere andati a sentire gli Europe dal vivo al Teatroteam di Japigia e ci ricordiamo che a Bari quel giorno nevicava e che due giorni dopo uno che conoscevamo è morto di overdose (da eroina e non da ecstasy) e passiamo intere serate a guardare su youtube le frangettone di Sanremo ’83 e le migliori scene di Grosso guaio a Chinatown. Poi spegniamo tutto e leggiamo Pincio e Pynchon, Wallace e Barth, Vonnegut e Benni. Decidiamo che McLuhan è il Nostradamus della rivoluzione tecnologica e accendiamo la televisione fermandoci a rivedere con il sorriso sulle labbra Karate Kid 2, quello ambientato ad Okinawa (Cina qui, Giappone qui, Okinawa qui). Restiamo continuamente sospesi tra la consapevole osservazione della molteplicità del sapere (rizomatica, per carità!) e la genetica fascinazione per le puttanate. Così gli anni Ottanta rappresentano tutte le cose divertenti che non faremo mai più ma a cui torniamo costantemente con accanimento terapeutico, forse per sottolineare la nostra diversità, la nostra lontananza, la nostra superiore capacità di analisi ma, riportando tutto a casa, non possiamo non renderci conto che in fondo continuiamo ad essere amanti delle tettone (i quarantenni che hanno sforzato i loro tendini sulle cameriere di Drive-in) e delle ragazzine (i trentenni altrettanto attivi sulle immagini di Non è la rai).
E allora i migliori T(renta)Q(uarantenni) in circolazione – quelli che affollano le cinquine dei premi e i palchi grandi dei festival della letteratura, quelli che sono stabilmente emigrati a Roma, Milano, Torino per tastare il polso dei grandi gruppi editoriali che  «non scelgono più i bei libri sperando che vendano, ma i libri che vendono sperando che siano belli» (come recita il manifesto di TQ) e che con questi mostri pubblicano ogni anno, quelli che fanno gli editor e dirigono collane per case editrici troppo modeste per le loro penne – dopo tanti anni di “indignazione solitaria” decidono di fare gruppo contro il “diffondersi del neoliberismo” e di porre delle regole di buona educazione editoriale che gli imprenditori dell’editoria dovrebbero decidere di rispettare: meritocrazia, bibliodiversità, trasparenza, ecosostenibilità, diritti dei lavoratori e così via, senza – naturalmente – trascurare l’immancabile filiera del libro.
Neanche una parola sui contenuti, neanche una parola sulle parole di cui (guarda un po’) i libri sono fatti. Neanche una strategia di azione, solo una presa di coscienza su che cosa deve cambiare e nessuna speranza reale di cambiare qualcosa. Tipico dei figli degli anni Ottanta. Tipico dei (T)renta(Q)uarantenni che hanno lasciato affondare la barca urlando che il capitano non sa stare al timone ma non si avvicinano nemmeno alle scialuppe di salvataggio finché qualcuno più anziano (o più giovane) gli spiega come si usano.
Tipico è anche il mio atteggiamento (inevitabilmente TQ per anagrafe e formazione) di sfiducia nei confronti dei manifesti. Ma nascere nel 1976 e rendersi conto che manifesti ben più lungimiranti e significativi sono finiti nel cesso all’apparire dei primi casalinghi capezzoli da Colpo grosso spezzerebbe le gambe a chiunque.
Spero che i TQ riescano a farmi cambiare idea, spero fermamente che il loro manifesto diventi azione e che dimostrino coi fatti che non si tratta di vaghezze, spero di essere convinto e di aderire al loro manifesto; per il momento continuerò a lamentarmi che tutto va male e a scrivere il meglio possibile, e questo è tutto.

Cristò

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7 Responses to Generazione TQ. Il manifesto letto da uno scrittore trentacinquenne fuori dai giri

  1. Cosa mi ricordo degli anni Ottanta? Oltre al Drive-in, ad Highlander, ai cartoni animati tipo Pollon e così via, mi ricordo della cortina di ferro, delle Feste dell’Unità, del disastro di Chernobyl, di un adesivo attaccato alla parete della mia cameretta, su cui era scritto “edonismo reaganiano” sopra la foto di una bambina scalza, sporca e probabilmente affamata, degli scandali Sindona e compagnia bella, del disastro di Ustica (o meglio, delle polemiche successive), della morte di Berlinguer, delle vacanze nella Yugoslavia comunista (e di bambini montenegrini affamati che fissano le merendine in bella vista nella nostra macchina), dei concerti di Jannacci Guccini De Andrè Clapton Dire Straits etc. a cui andavo con i miei genitori. Ah, dimenticavo della Bolognina. Forse ho avuto un’infanzia e un’adolescenza anomale.

  2. Massimo vaj says:

    Gli anni ottanta sono stati uno schifo, in generale, ma non per me che ho smesso di ingollare trip e di coltivare maria. Mi hanno assunto al Don Gnocchi per lavorare nel reparto dei ragazzi con patologie gravi e, perlopiù, terminali. Ho conosciuto il coraggio di fronte alla morte, diverso dalla mia incoscienza che della morte se ne è sempre sbattuta. Insieme a quello ho incontrato l’estrema ipocrisia delle istituzioni religiose che, miscelata a parecchia cattiveria individuale, dà origine alla disperazione nella quale la malvagità sogghigna. Morta la maggior parte dei miei ragazzi ho lasciato quel lavoro per guardare gli anni che passano da un altra e più tranquilla angolazione, e lavoro la terra di montagna per non farmi mancare nulla. Non è la felicità il mio obiettivo.

  3. matteoplatone says:

    Meno male ora posso commentare.
    Interessante l’uso degl anni ’80 come riemergere del represso psicologico e sociale.

  4. Ed Warner says:

    Beh negli anni ’80 son nati i Depeche Mode, motivo sufficiente per riscattare un intero decennio… articolo interessante.

  5. eletta senso says:

    Bellissimo il tuo argomentare: mi ha fatto molto sorridere. Adoro l’arguzia. Cercavo di approfondire questo TQ e ho trovato, come primo, il tuo commento. Proseguirò la ricerca…

  6. Cristò says:

    @eletta, grazie.
    @matteoplatone, era esattamente il mio intento.

  7. Onilut says:

    Sono entrato nel mondo in quegli anni. Le fotografie erano decisamente giallognole e si indossavano sempre grossi piumini blu ed era sempre inverno. Le altalene erano di ferro e la mamma era giovane

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