Appunti biodegradabili dalla terra della fantasia – 3
settembre 24, 2011 2 commenti
Ho scoperto che le uova bianche, più piccole e allungate, sono di gallina bianca. Le uova delle anatre, invece, c’hanno il guscio verde. Sabato, nel tardo pomeriggio, sono tornato a Roma. Roma l’ho vista, toccata e me ne sono andato. Domenica prima di pranzo ho visto il Ghelli, mi ha chiesto della vita di campagna, e parlando con lui di questa storia delle uova si è finiti a parlare di uova di struzzo. Il discorso nasceva da una strampalata idea di andare a vivere, una trentina di persone, in un villaggio diroccato per creare, da un piccolo borgo abbandonato, una piccola comunità, un villaggio autosufficiente dove poter vivere. Fantasticando su progetti impossibili ho detto che sarebbe bella questa cittadella con le galline che vanno per strada e i cani e i gatti e i maiali. Certo, bisognerebbe inventarsi qualcosa per far dormire le galline, si pensava ad una casetta davanti ogni abitazione dove chi si sveglia la mattina, se va bene, trova l’uovo. E si diceva che in un contesto del genere avere uno struzzo potrebbe far comodo. Io proponevo una supermegafrittata da quindici uova, al che Simone ha detto che lui un uovo di struzzo se lo farebbe sodo, una volta cotto toglierebbe il guscio per mangiarlo con un cucchiaino. Noi al tavolo tutti a ridere, immaginando la scena, tipo Nanni Moretti con la cioccolata in Bianca.
Roma l’ho trovata più vuota di come l’immaginavo. Sabato ho fatto un giro a San Lorenzo prima e poi al Pigneto, dove ho trovato per caso Carolina e Carlo e ho bevuto una birra con loro (o meglio con Carlo, giacché Carolina lavorava). La sera ho mangiato una pizza napoletana. Una pizza napoletana a Roma. Per anni ho considerato la miglior pizza a Roma quella di MangiaNapoli. Da un annetto avevo scoperto Langella, e quando potevo andavo a mangiare la pizza lì, o la ordinavo e la portavo a casa. Quando abitavo a Tor Pignattara certe volte me la facevo portare a casa. Altre andavo a prenderla io per risparmiare l’euro della consegna. Langella fa la pizza come la fanno giù in Campania, e ha dei prezzi rari per la capitale. E poi fa tutti gli sfizi e fritti tipici napoletani. Insomma, per un campano la pizza è importante, e trovare una buona pizzeria è un bisogno primario.
Qui in Umbria non ho ancora trovato una pizzeria, in vero non l’ho proprio mai cercata. Non è tempo, questo, per la pizza. Mangerò altro, con pochi euro saprò soddisfare lo stesso il mio palato e riuscirò a nutrirmi in maniera sana e genuina. La cucina povera è sottovalutata.
Oggi che ho cominciato a scrivere questo pezzo, mercoledì sera, non mi posso lamentare. A pranzo Vincenzo mi ha invitato a mangiare uno squisito spaghetto con le vongole. Anche giovedì scorso avevamo mangiato spaghetti con le vongole. Anche domenica a pranzo, a Roma, ho mangiato spaghetti con le vongole. In questa vita da disoccupato – anzi: da diversamente occupato – ci sono giorni che si mangia di lusso. Meglio così, quando ci saranno i giorni di stenti mi presenterò con la pancia piena. Stasera pure ho mangiato bene. Due fettine di carne. C’era dell’olio condito con aglio pepe peperoncino rosmarino e non so che altro, l’avevano lasciato gli ospiti domenica, io ne ho usato un po’ per cuocere la carne e un po’ per condirla dopo. Ho accompagnato con della lattuga, e pane. E una fettina di formaggio. Stamattina ho fatto spese pazze: 10 euro. Mi son concesso il lusso della carne, un pezzetto di formaggio e due salsicce secche. E un chiletto abbondante di pane. Tre mele. Una melanzana. Per domani c’ho da consumare un quarto di cavolo cappuccio bianco, lo farò con patate, cipolle e un paio di pomodorini. Nel surgelatore c’è ancora una vaschetta di fagioli che aveva lasciato Gaetano. Fagioli secchi, poi, ne ho in quantità. Quando verrà a trovarmi Marco Lupo, a cui ho promesso avrei offerto il vino, ne troverà per nutrirci, ma questa la capisce solo lui. Dal momento che l’ho nominato, ne approfitto per comunicarvi che dal prossimo venerdì, e per parecchi successivi, qui su Scrittori precari pubblicheremo un suo racconto lungo, Carta taglia forbici. Dalla prossima settimana poi, per restare in tema, Scrittori precari inizia a vestirsi di un tocco di internazionalità con il nuovo appuntamento quindicinale di letteratura rumena, racconti e poesie dalla Romania tradotti per noi da Clara Mitola. Perché se troppe volte, in questa italietta dei giorni nostri, si sente dire: «Via i rumeni dall’Italia», noi siamo d’altro canto felicissimi di ospitare, grazie a Clara, le scritture degli autori a noi contemporanei di questo popolo che troppe volte, volgarmente, molti dei nostri connazionali scaraventano in stupidi e a volte ignobili cliché; insomma vogliamo puntare il nostro sguardo verso un popolo solitamente bistrattato e spesso umiliato ingiustamente. Quando lavoravo al discount, dovete sapere, il mio collega Marcello, rumeno, era quello che lavorava più di tutti. Ma ne parlerò probabilmente in altra sede, della storia di Marcello, potrebbe anche rientrare in una vecchia idea di romanzo che chissà se un giorno riprenderò, ma lasciamo perdere. Gli Appunti di questa settimana sono poco biodegradabili. Sono partito con Roma, passando per il cibo e finendo a fare un editoriale per Scrittori precari. La scrittura, se la lasci andare, certe volte non sai dove ti porta. Ma quando te ne accorgi puoi riportarla sui binari. E dici questa città non ci morirà tra le braccia canta Vasco Brondi mentre ho smesso di vendere le mie ore a sette euro e mezzo ma continuo a lasciare scie elettroniche. Come queste. Eppure non mi sono fatto prendere da scoramento lunedì quando se n’è andata per un bel pezzo la corrente. Ho trovato una candela, l’ho accesa e con la prima cera l’ho attaccata nel posacenere, e mi son messo a leggere La mamma maestra di Bianciardi, che non so nemmeno come sia
finito nella scatola di Frigoletture, ma l’ho riletto molto volentieri, e come la prima volta, mi ha ricordato in alcune parti mia nonna e in altre mia madre, due donne, a loro modo, mamme maestre. E se d’inverno mancherà a volte la corrente, le candele ce le ho, e i libri pure. Domenica notte ha fatto un temporale bello tosto, e lunedì mattina per una decina di minuti addirittura ha grandinato. In una giornata la temperatura è scesa di oltre dieci gradi. A Roma ho trovato, sebbene metà settembre, ancora l’estate. La notte ancora col ventilatore acceso. E in un attimo: il freddo. Un freddo cane, giusto per collegare al fatto che volevo dirvi che uno dei cuccioli, la femmina, ci ha lasciati. Domenica sono venuti a Frigolandia dei ragazzi di Pescara (se ho capito bene) e una di loro s’è portata la cucciola via con sé. Matteo e Viola, intanto, continuano, malgrado le mie insistenze, a non cedere. Voi, comunque, se siete interessati, scrivetemi e ci mettiamo d’accordo. Ma lasciamo da parte i cani e torniamo ai polli. Qualche giorno fa, era pomeriggio, passeggiavo per ricompattare le idee e mi son fermato a guardare la vita nel pollaio, ho notato due topolini che si aggiravano furtivi in mezzo alle anatre e alle galline. Devo stare attento alle uova, sono sicuro che me le vogliono fregare. Chicco raccontava che i topi sono soliti, quando devono fare di questi lavoretti, girare in due: uno acchiappa l’uovo stringendolo tra le braccia e, dopo essersi attaccati per la coda, l’altro lo trascina via fino a un posto sicuro dove papparsi le uova. E in effetti, uno dei due topini, quello dentro al pollaio (l’altro si manteneva vicino alla rete di recinzione, mezzo dentro e mezzo fuori) si sfregava le zampette come a dire: «E adesso ci facciamo un bel pranzetto!». Bisogna stare attenti ai topi, e la mattina fare prima di loro. Devo mettere una scopa all’entrata del pollaio. Si sa mai.
Che poi non vi ho raccontato né della pelle di serpente, anche se poi non è che ci sia tutto questo gran da dire, né delle (dis)avventure con ragni pelosi, scarafaggi, scorpioni e altri strani insetti, tipo quella specie di verme con una decina di zampe e peli che era finito tra le lenzuola, o quella specie di cimice, ma sono sicuro non fosse una cimice, che proprio qualche secondo fa è sbucata fuori dalla valigia e dopo un paio di tentativi, prima con una borsa della spesa, poi con un foglio di carta, sono riuscito a cancellare e giustiziare: spiaccicata in un fazzoletto – non puzza, non era una cimice – di carta. È la dura legge della natura. Pensate al povero grillo che uno dei cuccioli s’è mangiato qualche giorno fa. E voleva solo giocare all’inizio. Ma poi se l’è sgranocchiato bel bello e l’ha buttato giù.
“La scrittura, se la lasci andare, certe volte non sai dove ti porta”….(G.L.)
Da qualsiasi parte ti porti lo scrivere alla fine la sua chiave l’hai in mano tu. Mai la scrittura ti può portare a conoscere ciò che non è già tuo. Si muove dall’interno di te all’esterno. Il contrario si chiama in tanti altri modi.