La società dello spettacaaargh! – 3

[La società dello spettacaaargh! 12]

Caro Matteo,

tu dici: «Vedi, Jacopo, non mi pare che queste manifestazioni volgari siano una faccenda degli ultimi anni, o della nostra generazione». Vero, eppure, Matteo, avverto un salto di qualità.

È un’illusione dovuta al fatto che, per svariati motivi, oggi è più facile ritrovarsi a confronto con altre mentalità, con altri popoli? Oppure qualcosa è intervenuto a potenziare quella mentalità?

Io spero nella prima, ma penso alla seconda.

L’ultimo libro di Roberta De Monticelli, La questione morale (Raffaello Cortina, 2010), può venire in aiuto a chi voglia affrontare questi temi. Ne riassumo qualche tesi: a differenza degli altri popoli, noi non abbiamo avuto davvero l’illuminismo, che comporta l’assunzione di responsabilità individuale come cittadini; siamo passati alla democrazia ma abbiamo mantenuto costumi da cortigiani, costumi che potevano anche salvarti la pelle quando vivevi sotto un sovrano ma che in democrazia sono deleteri; i nostri stessi governanti hanno costumi da cortigiani; la mentalità da cortigiani è cambiata: prima serviva a non subire un potere, oggi serve a parteciparvi; prima era dissimulata, oggi è ostentata.

Secondo De Monticelli, una mentalità antica c’è, in Italia, ma si integra con lo scetticismo morale del Novecento; De Monticelli scrive anche che «la manifestazione universale è il modo nuovo della non-trasparenza. Il vero si occulta meglio nella luce del televisibile. E questo è precisamente il nuovo statuto della menzogna, che è l’indifferenza assoluta a ogni prova del contrario: la forza di persuasione del falso, basata esclusivamente sulla sua ripetizione e sulla soppressione delle voci contrarie».

Io sono più estremo di Roberta De Monticelli e mi concentro molto di più sull’indifferenza che sulla ripetizione del falso e sulla soppressione delle voci contrarie.

Io ho una visione orribile: noi sorridiamo, saltelliamo, ammicchiamo, come l’ultimo uomo dello Zarathustra di Nietzsche, l’uomo che ha inventato la felicità; noi allontaniamo progressivamente la realtà, il suo valore, la sua logica, per mezzo del linguaggio, della risata, della reificazione.

Prendi Berlusconi che stressa sistematicamente il principio di non contraddizione, e sorride, e ammicca; se prima l’aver fatto una cosa equivaleva ad averla fatta, ora sembra equivalere a ‘non averla fatta e non non averla fatta e non non non averla fatta’ e via così, verso il punto di fuga dei significati. E questa fuga dei significati mi pare veramente trovare terreno fertile nella mentalità che attraversa il Novecento, e che chiamerò sommariamente “pensiero debole”, che è ormai cultura condivisa: intendo la pratica di liquidare come un ‘pretendere di avere la verità’ o un ‘voler imporre la verità’ un qualsiasi prendere sul serio la propria esperienza della realtà, anche morale. Insomma: se come popolo abbiamo sempre avuto la tendenza a non prendere le cose sul serio, ora questa tendenza è potenziata dalla comunicazione, e persino da una concezione filosofica. Prendi i tirapiedi di Berlusconi che ripetono fallacie da sofisti con l’aria di chi sferra sillogismi d’acciaio: lo fanno e possono farlo perché quelle fallacie non servono a dimostrare una verità, bensì a rafforzare un’appartenenza. E queste fallacie, insieme alle etichette e alle frasi fatte, vengono intese ormai come il corretto modo di dialogare, addirittura come savoir-faire. Prendi l’argumentum ad hominem e l’argumentum ad verecundiam, che la fanno da padroni: non conta quanto un enunciato corrisponda a una realtà esterna, non conta se chi lo enuncia abbia competenza della realtà esterna, conta chi lo enuncia e basta. Prendi il sostantivo magico, l’uso reiterato di «la nostra cultura» e «la nostra civiltà» fatto da gente di un’ignoranza abissale per giustificare il nazionalismo. Prendi il modo in cui usiamo i morti mediatizzati, quando impugniamo il significante – la foto o il nome proprio di una persona – per partecipare a un evento della comunicazione, per dichiararci pubblicamente addolorati per una persona resa famosa dalla sua stessa morte, per scrivere su Facebook «Ciao piccolo angelo non ti dimenticherò». Prendi come andiamo a fare le file davanti ai luoghi dei casi di omicidio trattati dai media.

Il significante si svuota, tutto diventa indifferente, e il significante si svuota quando tutto è indifferente, quando l’esistenza del referente, la realtà significata, è stata resa sbiadita e inconsistente dalla sua circolazione in immagine o parola. Le pratiche comunicative più diffuse sono pratiche che attraverso il linguaggio devastano la consistenza e il valore del reale: questo è l’aaargh! che sta in fondo alla società dello spettacolo.

Questa è la mia sensazione: noi precipitiamo dalla semplice contraffazione della logica, che allontana il concetto di verità della realtà, all’inconsistenza della realtà, che genera indifferenza morale; a sua volta, il deterioramento della capacità morale – intendo la capacità di sentire i valori – agisce come un feedback anche sulla logica e sulla verità, perché anche nella logica non cogliamo più valore, e anche nella verità non cogliamo più valore, e l’indifferenza si rafforza.

E allora precipitiamo ulteriormente, come per una legge di compensazione, ci creiamo una specie di realtà del nulla: precipitiamo dall’uso della logica, della riflessione, dello spirito critico, alla reiterazione dei tic linguistici, e diventiamo robot che ripetono le parole dei media; e precipitiamo dall’indifferenza morale alla creazione di un simulacro di sentimento morale, un simulacro di stampo televisivo, oppure ci buttiamo nelle emozioni più basse: l’aggressività, il godimento dell’umiliazione.

O forse tutto ciò che ti ho detto è un mio incubo, e spero che lunedì prossimo tu sappia svegliarmi.

Jacopo

30 Responses to La società dello spettacaaargh! – 3

  1. Di questa questione me ne sono occupato a proposito del grottesco (in particolare in merito al cinema che si confronta con la televisione e il suo immaginario): questa indifferenza che tu individui, Jacopo, la trovo una conseguenza della soppressione della maschera. Mi spiego meglio: il nostro paese, da sempre influenzato dalla gestualità e dagli intrecci della commedia dell’arte, e dunque in ultima analisi dalle maschere, che rappresentavano una delle modalità tipiche del rovesciamento dei ruoli (e dunque una messa all’indice del potere), sembra oggi aver perso anche questa necessità di mediazione (la pulsione di vedersi rappresentati in una farsa), poiché tutto avviene fuor di maschera. Questa realtà del nulla (per cui si può dire tutto e il contrario di tutto, per cui si può vivere in una continua contraddizione tra ciò che si dice e ciò che poi si fa, ma alla luce del sole), tutto questo mi sembra una sorta di teatro dell’assurdo, se non fosse che avviene senza alcuna ribalta. Non è la politica che scende in piazza (vecchio slogan svuotato di senso), ma il popolo che salta sul carrozzone (così come agogna d’invadere il set televisivo per stare lì, in mezzo ai suoi idoli) per poter dire “io sono come loro”, e quindi accettarne tutte le implicite debolezze: il corredo di falsità e ipocrisie che da decenni contraddistingue il nostro modo di fare politica. Dunque non “il potere che si abbassa al popolo”, bensì il contrario: e in questo abbassamento non c’è più niente di grottesco, ma solo questo senso di nulla che tu avverti, caro Jacopo.

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  3. jacopo nacci says:

    Grazie Simone,
    mi sa che ti sei messo in un bel casino, perché ora pretendo che tu mi fornisca link, pdf e riferimenti bibliografici. ^^
    Nella mia testa, istintivamente, si accesa qualche lucina dalle parti Perniola e Recalcati, ma prima voglio capire meglio.

  4. matteoplatone says:

    Grazie, Simone, volevo giusto scrivere questo,nella mia risposta 😀

  5. Allora ritiro tutto! 😀

  6. jacopo nacci says:

    Che imbucato, il Pascoletti.

  7. matteoplatone says:

    Tutto questo affetto mi ucciderà.

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