MONDIALI 1934 – ME NE FREGO!

«tutto succede perché diventi

una storia e io la racconti».

Pier Paolo Di Mino

canto III, Storia Aurea

 

Un allenatore, tempo fa, disse che il calcio è cronaca, mica storia. Altri invece potrebbero pensare che tutto esista solo per essere narrato, e che mettere foglio su foglio aiuti, se non a capire, a sopravvivere meglio; perché poi capire, arrovellarsi con spiegazioni che non cambiano nulla, non è il solo modo di vivere.

Enrique Guaita, ad esempio, non riusciva proprio a capire, eppure, era felice. Appena giunto nella città eterna, nell’estate del ’33, lì stretto nell’assolata piazza Esedra con migliaia di persone che incitavano il suo nome e che cantavano cose a lui incomprensibili, era felice, e dovette arrivare a pensare che il cuore e la testa non sempre s’intendono. Guardava con fare interrogativo i due connazionali, Scopelli e Stagnaro, arrivati come lui per giocare e salvare le sorti dalla squadra della Roma, per capire se a loro la testa diceva qualcosa, ma i compagni si limitavano a salutare tutti con ampi gesti del braccio e il pubblico a ricambiare, a fare versi strani. Questi italiani erano proprio come glieli aveva descritti il nonno: dei gran mattacchioni, sempre a far festa e a cantare ad ogni occasione e poi come per brindare innalzavano la mano al cielo e urlavano: «A noi!» ma il bicchiere non c’era mai. Con il passare dei mesi, gli piacevano sempre più gli italiani, venivano a vederlo pure mentre si allenava e battevano le mani, fischiavano, erano vestiti quasi tutti uguali e gli avevano affibbiato un nome nuovo di zecca: il corsaro nero. Era gente sensibile che si doveva preoccupare molto del clima, infatti sia nelle giornate di sole che di pioggia, anche durante una conversazione se ne stavano a braccia conserte con lo sguardo rivolto al cielo e il mento protratto all’insù, e un giorno Enrique, che aveva voglia di sfoggiare il suo incerto italiano, disse ad uno: «Oggi sole, molto bellissimo sole, a me mi piace sole!», ma questi, forse per un eccesso di timidezza o perché il giocatore non si era espresso correttamente, gli rispose tutt’appunto che se ne fregava: «Me ne frego!» Il buon Sacerdoti, il presidente della squadra, gli diceva di non stare a preoccuparsi e di impegnarsi sul campo e che avrebbe messo da parte un bel gruzzoletto. Enrique, felice di quella promessa, sudava in campo, giù avanti e indietro pronto a gonfiare la rete ogni volta che gli si presentava occasione. Il primo anno segnò quattordici reti, La Roma faceva parlare di se anche grazie alle sue prodezze, tutte le squadre volevano il corsaro nero, tutti volevano avere a che fare con lui, lo invitavano a feste lussuose in grossi palazzi dove gli facevano i complimenti anche persone importanti e ad Enrique gli piaceva passare il tempo con loro a scrutare insieme il cielo a braccia conserte.

Un pomeriggio Sacerdoti lo convocò nel suo studiolo per comunicarli che Pozzo, il CT della nazionale italiana, lo voleva in squadra. Furono inutili le rimostranze del giocatore:

«Yo soy argentino!!»

«Famose ‘a capì, tu, Enrichetto mio sei italiano!! ce pensi ar gruzzoletto?»

Alla fine i due si capirono e si accordarono sul termine oriundo, Enrique, per via del nonno o bisnonno, era oriundo. Per fortuna non partiva titolare, ma quando fu chiamato in causa, quando sentì il pubblico di Milano, dove si disputava la semifinale contro l’Austria, incitare il corsaro nero, Guaita non penso più a nulla, fece mezzo campo e con il portiere già stramazzato a terra grazie a un fallo di Meazza, segnò la rete che portò l’Italia in finale… e il resto, fu prima cronaca e poi storia, l’Italia vinse il suo primo campionato del mondo e giù fiumi di parole, battaglia, onore, vittoria, destino e i giornali che gli dedicavano pagine: «E il centravanti della nuova generazione, un fuoriclasse». L’argentino con il fregio di campione italiano del mondo giocò il seguente campionato ancor meglio, segnando ventotto gol su ventinove gare disputate, record assoluto nei tornei a sedici squadre; numeri da far invidia, sopratutto a chi, pensando che il blasone e le vittorie si acquisissero per anzianità e non per merito, vedeva la prima squadra della città (per nascita), la Lazio, accontentarsi di stare sempre sotto in classifica a ridosso dell’odiata rivale. Per Giorgio Vaccaro, dirigente laziale vicinissimo al duce, fu un piacere accogliere Enrique, e i due compagni Stagnaro e Scopelli, per comunicargli che presto si sarebbero potuti far onore anche in battaglia; l’Italia era in procinto della guerra d’Etiopia e loro, da bravi italiani, erano chiamati come tutti alle armi.

«Yo soy argentino!!» protestò Enrique.

«Sei italiano! un campione del mondo» tagliò corto Vaccaro, che con quel nome campestre già segnava il destino di una tifoseria.

Dovette pensare velocemente Guaita, velocemente e in maniera confusa. Pensò al pallone, alla patria, alla guerra, agli italiani e che correre dietro a una palla, non era come farlo davanti a una pallottola.

Il Corsaro nero, che in quei due anni aveva imparato qualche parola italiana, rispose a tutti nella stessa maniera, al dirigente laziale, ai compagni e al buon Sacerdoti che provò a tranquillizzarlo che i giocatori non sarebbero mai e poi mai stati impiegati nell’esercito.

Enrique Guaita che ora capiva di più, ma era sempre meno felice, disse loro: «Me ne frego!»

Era notte a Roma quando salì su una lussuosa “Dilambda” e , senza pensare di fare storia, sparì per sempre.

Massimiliano Di Mino

L’ultima notte di Cagliostro

L’ultima volta che gli servii la cena fu la sera del 25 agosto. Chiusi la porta e lo trovai intento, come altre volte, a dipingere la parete. Per pennello usava un cucchiaio alla cui estremità aveva posto la lana del materasso che intingeva in acqua sporca di ruggine. Stava iniziando un ritratto. Con movimento sicuro tracciò il cerchio di una pupilla. Poggiai il vassoio e credo gli chiesi se cercasse compagnia in quel volto. Lui fece un gesto, lo ricordo bene perché mi colpì, si avvicinò alla parete che stava disegnando e la carezzò, come fosse una guancia.

Mi guardò e per la prima volta mi rivolse la parola, mi chiese se avessi, invece, io voglia di fargli compagnia.

Non saprei dire se m’impietosì o ipnotizzò. Il suo sguardo non era normale, ma pesante e fisso su di me. Temevo riuscisse a leggermi dentro, mi lasciai cadere sul bordo del letto.

Spezzò il pane e assicurò nelle mie mani la metà. Nei suoi gesti, nelle sue movenze non riconoscevo più quell’uomo che tutti dicevano diavolo, non ravvedevo la potenza, la cattiveria della persona entrata quattro anni prima nella fortezza inespugnabile, nell’isolamento più totale, fuori dal mondo; come me, il suo carceriere.

Mi chiese se avessi famiglia o una donna da cui tornare. Feci segno di No. Pensai che ero l’unico amico del diavolo, condannati entrambi al carcere a vita.

Non rammento le parole precise, ma parlò della felicità, diceva risiedesse nella capacità di volere quel che si ha. Eravamo dunque felici?

Non gli importava neanche della libertà, un valore, secondo lui, sopravvalutato che i potenti erano pronti a difender con sangue vergine; la ricchezza, poi, quella era solo un abbaglio creato per celare la verità. L’ascoltavo non perdendolo mai di vista e nel mentre mi ripetevo che se quell’uomo potente era mio amico, allora forse potevo essere potente anch’io.

Camminava lentamente dalla finestra al letto, con soli quattro passi percorreva l’intero perimetro della cella. Per molti era stato solo un truffatore, per altri un alchimista ed ancora: filosofo, matematico, astronomo, teologo, taumaturgo, linguista, orafo, musicista, massone e addirittura mago.

“Sa quante vite ho avuto?”, chiese nascondendosi il viso tra le esili mani. Non risposi, strappai con i denti un pezzo di pane e aspettai che proseguisse.

“Non mi dico innocente, ma la mia unica colpa si chiama amore, un amore malato come tutti gli amori” bevve un sorso d’acqua e riprese il racconto “La conobbi che non aveva quindici anni, era bellissima. Da quando fu mia, non smisi mai di ringraziare il cielo e mai di tremare per il timore di non meritarla. Volevo essere sicuro che fosse mia e solo mia perché lo meritavo e non solo per la sua giovane età. Fu così che la spinsi nelle braccia d’altri uomini, solo per riempirmi il cuore vedendola tornare da me”, il diavolo s’interruppe, forse anche lui aveva bisogno di coraggio per ricordare, per proseguire la sua storia. “Le presentai un russo, nelle passeggiate e nelle sue lussuose stanze conobbe ricchezza e nobiltà, ma lei tornò ancora da me. Il mio amore era una leva pronta a sollevare il mondo. Il secondo fu un avvocato francese, nelle sue carezze trovò l’onestà, ma chiese di tornare con me. Finalmente capivo ogni cosa. Il nostro amore era allora pronto, pronto per essere professato a tutti, cantato in ogni parte del mondo”.

Il diavolo si alzò dalla rete e mi fece strada tra quelle poche mattonelle accompagnandomi fuori dalla sua cella, poi proseguì: “Venne la volta del famoso Casanova, lasciai sola con lui la mia sposa, tra le sue lenzuola trovò l’avventura e la leggenda e ancora in lacrime tornò. Le giurai che sarebbe stata l’ultima volta, ma non fu così. Un giorno, però, mi convinse a tornare a Roma e scappò. Il resto è noto: mi denunciò, dovette pensare che l’unico modo per fuggirmi fosse mettere mura e ferro tra noi”.

Coprendosi il volto con le mani, chiese di essere lasciato solo. Chiusi la porta augurandogli una notte serena, lui raccolse il pennello e con un cenno del mento annuì.

Il mattino seguente, poco prima di mezzogiorno entrai nella cella, mi sembrò ancora addormentato, provai a svegliarlo, ma il suo cuore aveva cessato di battere. Tra le dita stringeva ancora il suo cucchiaio. Sulla parete, il volto di una donna ci sorrideva. Lei era tornata ancora una volta.

Giuseppe Balsamo alias il Conte di Cagliostro fu sepolto fuori da luogo sacro sul monte della fortezza di San Leo il 28 Agosto 1795.

Massimiliano Di Mino

Scrittori precari augura buone feste

Scrittori precari vi augura buone feste ed un felice 2010.

Questo blog va in vacanza per ritornare attivo sabato 2 gennaio 2010 con l’undicesimo appuntamento de La banda dello stivale.

A gennaio si ricomincia con un doppio appuntamento capitolino:

21 gennaio 2010

ore 18.30

Libreria Rinascita

Largo Agosta – Roma

Ospiti Pier Paolo e Massimiliano Di Mino

28 gennaio 2010

Ass. Cul. Simposio

Via dei Latini 11/ang. via Ernici

San Lorenzo – Roma

Ospiti Peppe Fiore e Vanni Santoni

Inframezzo musicale di Manuel Milano

Consigli di lettura

Segnaliamo due recensioni dell’antologia e il cagnolino rise in cui sono presenti i racconti dei precari Liguori, Ghelli e Zabaglio.

Una la trovate a pagina 15 del numero 3 di Finzioni firmata da Simone Rossi.

L’altra, firmata da Massimiliano Di Mino, uscita su Il Paradiso degli Orchi.

Buone letture!