La luce del Natale *

Non sono mai stato un fanatico delle pulizie di casa.
Per intenderci, non mi è mai venuto in mente di svegliarmi la domenica mattina alle 7 per ripulire l’appartamento da cima a fondo come faceva mia mamma, ad esempio, che ci buttava giù dal letto, apriva tutte le finestre “che devo cambiare l’aria” e si metteva a ramazzare, mentre noi, infreddoliti e con un principio di broncopolmonite in corpo, ci stipavamo accanto al camino.
Quest’anno al pranzo di Natale ci saranno solo i miei amici. Scelta obbligata, visto che con i miei d’altro canto non parlo da mesi, in seguito a quella faccenda di quest’estate. Mi va bene così: meno ansia, meno stress, meno fisime sul cosa preparare e soprattutto zero sbattimento per quel che riguarda le pulizie. Molto molto meglio. Leggi il resto dell’articolo

Roma violenta – Liguori intervista Moretti

Sono trascorsi alcuni mesi dall‘ultima volta che ho intervistato, in occasione dell’uscita del romanzo Il senso del piombo, Luca Moretti. Quell’intervista è stata veicolo di discussioni accese e riportata in parecchi forum della destra radicale. Dopo la storia di Giusva Fioravanti e dei Nar, lo scrittore trentacinquenne torna nelle librerie, sempre per i tipi di Castelvecchi, con Roma violenta, un libro scritto a quattro mani col rapper Duke Montana. Torniamo a scambiare quattro chiacchiere con lui. Leggi il resto dell’articolo

Il senso del piombo – Reloaded

Mi chiedete chi è Carlos Reutemann, se esiste un’organizzazione dietro questa sigla. Rispondo no, non è stata la sigla di un’organizzazione unica, con organi dirigenti, con capi, programmi e riunioni periodiche. Non esiste un’organizzazione che abbia questo nome e che sia comparabile alle Brigate Rosse o a Prima Linea. Non esiste nemmeno un livello minimo di organizzazione. Ogni gruppo armato che si è formato anche occasionalmente nel nostro ambiente, fosse anche per una sola azione, ha potuto usare questa sigla. D’altra parte non c’è stato modo per impedirlo. Mi chiedete se siamo o siamo stati fascisti, vi rispondo che i fascisti del dopoguerra non sono mai esistiti e che candidamente qualcuno può solo aver pensato, o per meglio dire immaginato, di essere fascista. Di Mussolini non me n’è mai importato niente: non ho mai pensato che fosse una gran persona. Quando sentivo dire: “Uccidere un fascista non è reato” non pensavo al Duce o al Ventennio, ma all’unica persona fascista che conoscessi, mia madre.  

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Il senso del piombo – Liguori intervista Luca Moretti

Luca Moretti, scrittore e papà di TerraNullius, nel suo nuovo romanzo, Il senso del piombo, nelle librerie da metà maggio per i tipi di Castelvecchi, affronta una materia difficile e insidiosa: la destra eversiva degli anni Settanta e Ottanta. L’autore ci parla, attraverso una scrittura lineare e scorrevole, di quegli anni bui di attacco frontale alla borghesia e al potere, della storia romanzata del Tenente, alias Carlos Reutemann, la sigla che nel romanzo è il nome multiplo usato per rivendicare le azioni della Gioventù Nazional-Rivoluzionaria, ovvero i Nar di Giusva Fioravanti, alias Carlos Reutemann.

Moretti indossa i panni del terrorista nero e immagina di raccontare a suo figlio la storia di quegli anni, di quella guerra, spiegargli il senso di tutti quei morti ammazzati, il senso di tutto quel piombo. Facciamo quattro chiacchiere con lui.

Perché hai deciso di raccontare la storia del terrorista Giusva Fioravanti? Leggi il resto dell’articolo

IL SENSO DEL PIOMBO – Quando la cronaca segue la fiction

[Riproponiamo qui di seguito una nota di Pier Paolo Di Mino e un estratto del romanzo di prossima uscita per Castelvecchi, Il senso del piombo di Luca Moretti]

Torna in libertà Pierluigi Concutelli il più grande tra i killer della destra eversiva degli anni Settanta

la Repubblica

Corriere della Sera

Il Messaggero

Oggi  le foto del “Comandante” riempiono le prime pagine dei quotidiani. L’irriducibile killer nero, adorato ed emulato dai giovani della destra eversiva è stato liberato per gravi problemi di salute.

Concutelli, l’irriducibile che ha gridato: “Non mi pento di nulla! Non rinnego nulla, non mi sono mai inginocchiato allo Stato.”, è uno dei protagonisti del nuovo romanzo di Luca Moretti, Il senso del piombo,  in uscita a maggio per i tipi di Castelvecchi.

 Un romanzo epico che affronta una materia difficile come quella della destra eversiva: dal rogo di Primavalle alla fine dell’esperienza di lotta maturata in seno allo spontaneismo armato dei Nuclei Armati Rivoluzionari di Giusva Fioravanti. Un romanzo che restituisce le profonde ragioni epiche che condizionano, nel bene e nel male, i fatti della storia.

Oggi che quella realtà torna alla ribalta, nessuna lettura è più salutare per la comprensione di quei fatti e di quelle gesta (quelle del killer spietato del giudice Occorsio) di quella che si può godere su queste pagine. Di seguito incollo due stralci dal romanzo di Luca (sapendo che l’amico non me ne vorrà) in cui si ripercorrono proprio i momenti dell’assassinio del Giudice e dell’arresto del “Comandante”.

PPDM

…Hey! Ho! Let’s go!

Il Giudice dovette prestare un po’ più di attenzione alle parole, capiva molto bene l’inglese ma alla radio qualche parola finiva sempre per sfuggirgli. Quella canzone sembrava fare ironia sulla tentata invasione americana dell’isola di Cuba del 1961. Era il primo singolo di un gruppo nuovo, i Ramones. Allungò la mano destra sulla manopola dell’autoradio e cercò di sintonizzare meglio la frequenza.

Milleottocento colpi al minuto, trenta colpi al secondo.

– Il mio giudice è morto ma ancora non lo sa.

Fu così che il Comandante si fece il giudice suo. Senza parlarne con nessuno, con la facilità con cui si beve la birra d’estate, da solo. Quel giudice continuava a infilare il naso dove non doveva e lui l’aveva fatto fuori senza troppi convenevoli, così, come un maiale in mezzo alla strada, mentre lo Stato rimaneva a guardare.

Il Comandante era in guerra, da sempre. Il suo cervello era un’affilata tattica militare, conosceva ogni tipo di arma, ne avrebbe potuto parlare per ore. Ma non era uso che il Comandante parlasse con qualcuno, il combattente parla solo con la sua Kavasaki: milleottocento colpi al minuto, trenta colpi al secondo.

Il Comandante era solo, riteneva i suoi vecchi compagni degli sciacalli, dei collusi, uomini ormai lontani dallo spirito vero della Rivoluzione. Anni prima aveva combattuto in Africa per l’indipendenza dell’Angola, in Spagna aveva fabbricato orfani a non finire e poi, solo con la sua Kavasaki, era tornato nel Belpaese per cucinarsi il giudice suo. Nessun problema, niente di strano: il carro armato va colpito una e una volta sola, nel punto più fragile, al cuore. Il Giudice dal canto suo aveva fatto tutte le dichiarazioni possibili: quei gruppi andavano messi a ferro e fuoco, andavano catturati, tutti.

Nessuno lo aveva ascoltato, il Taranta aveva fatto in modo che venisse lasciato solo e il giorno era arrivato.

Il Comandante era allora uscito di buonora, pettinato e con dei baffetti affilati, la strategia perfetta al millesimo, da buon miliziano aveva già calcolato ogni movimento del Giudice suo: la strada senza possibilità di manovra che imboccava ogni mattina per recarsi al Palazzo di Giustizia, i tempi, gli spazi. Il Comandante fermò la moto proprio davanti all’auto del Giudice suo impedendone la marcia, quindi la trivellò comodamente con la Kavasaki spagnola, quello crepò all’istante, lui fece inversione e venne via come tornando da una giornata al mare con gli amici, senza rimorsi, senza guardare indietro, perché in guerra si guarda solo avanti. I Ramones erano ancora sulle note di Blitzkrieg Bop: “la guerra lampo”.

… Intanto il Comandante era stato arrestato. Gli avevano dato giusto il tempo di farsi il giudice suo e poi l’avevano messo fuori gioco. Il covo dove viveva trincerato era in pieno centro storico, i vicini furono allertati subito dal rumore degli spari, il Generale era stato chiaro: il Comandante era un soggetto pericoloso e nessuna pietà dovevano avere nel catturarlo, dovevano ammazzarlo se necessario.

La porta era corazzata e i quaranta colpi dell’M12 non riuscivano a sfondarla, gli uomini dell’antiterrorismo continuavano a sparare.

Era la paura a sparare.

– Io non esco!

Strillava dall’interno dell’appartamento.

– Fatene entrare uno. Solo uno e deve essere pulito, disarmato, mi serve solo un volontario che mi viene ad ammanettare.

Passarono alcuni secondi di silenzio.

– Entro io.

– Chi sei?

– Mi chiamo Antonio.

– Entra Antò, che se ti comporti bene oggi è il tuo giorno fortunato, una medaglia non te la leva nessuno.

La porta si aprì e l’agente entrò così come il Comandante aveva ordinato, ponendosi nel cono di fuoco dei mitra. Il Comandante richiuse la porta e perquisì Antonio per bene.

– Inquilini, mi sentite? Sono nudo e mi sto consegnando disarmato alle forze dell’ordine! Avete sentito bene? Sono disarmato!

Gli inquilini non risposero, rimasero barricati in casa. Avevano sentito tutti, il Comandante era salvo, nessuno avrebbe potuto più suicidarlo.

LM

Pier Paolo Di Mino presenterà con l’autore Luca Moretti e Cristiano Armati, direttore editoriale di Castelvecchi, il romanzo Il senso del piombo sabato 7 maggio presso la sede RASH, in via dei Volsci 26 a San Lorenzo – Roma.

Info: http://www.ilsensodelpiombo.tk


«Línfera»: intervista a Luca Morricone e Francesco Lioce

«Línfera» è una fucina letteraria, un movimento che prende corpo da molti appassionati e alla fine abbiamo avuto il piacere di parlare con le menti pensanti di questo cuore pulsante. Luca Morricone e Francesco Lioce ci raccontano la loro storia.

Come nasce «Línfera»? Da quali esigenze?

L.M.: Prima di tutto dalla volontà, quella di costruire. Poi ci sono le coincidenze…

F.L.: Certo le coincidenze sono indispensabili: «Línfera» nasce come un incontro spontaneo ma necessitato di caratteri e persone. E questo, bene inteso, al di là degli steccati cronologici e di quelli generazionali.

L.M.: Era il marzo del 2004. Ci siamo incontrati frequentando i corsi di scrittura creativa all’Università di Roma Tre, quelli organizzati nella “zona franca” di Sergio Campailla. Ma non eravamo solo ragazzi…

F.L.: C’era gente di tutte l’età…

L.M.: E infatti la redazione è ancora oggi composta da persone di età molto differenti. Io e Francesco siamo i più giovani, poi c’è Roberto Raieli e naturalmente vengono Marzia Spinelli e Antonietta Tiberia. Capirai che le esigenze per ognuno di noi, in realtà, sono state diverse.

F.L.: Poi abbiamo cominciato a vederci fuori dall’Università. Anzitutto al Cafè Notegen di via del Babbuino. Poi, con il passare del tempo, un po’ per un motivo, un po’ per un altro, ci siamo decisi a frequentare anche gli altri luoghi d’incontro della società letteraria romana.

L.M.: Sì, ma questo è successo dopo. Dopo il 2006. Solo quando «Línfera» era già una realtà. Prima della rivista ci sono state tante riunioni, ci sono stati tanti scontri, perché infatti il dialogo lo si trova spesso solo passando attraverso lo scontro, e noi, come ti dicevo, avevamo voglia di costruire qualcosa, qualcosa per noi stessi, ma anche per dare un senso alla nostra dimensione sociale di uomini fra gli uomini.

Cosa vuol dire «Línfera»?

F.L.: Io qua ripeterei quanto ha scritto Marzia Spinelli in proposito: «È la linfa che era e che continua a essere. […] Il liquido linfa che era è ancora; circola perché è in movimento, un’ondata e un ritorno dal e col passato, un dialogo dinamico tra le epoche».

L.M.: Insomma, è un gioco di parole che aveva proposto inizialmente Roberto Raieli, mentre seduti a un tavolino del Notegen ci mostrava alcune fotocopie di «Lacerba».

F.L.: In ogni caso, però, è anche giusto dire che il nome dentro di noi si è chiarito con il tempo, quando abbiamo iniziato a operare attivamente e a fare effettivamente letteratura; parlandone con Maria Luisa Spaziani, Walter Pedullà e con Elio Pecora. Poi le cose che avevamo in testa le hanno capite e ampliate via via anche i nostri collaboratori. Penso a Fabio Pierangeli, a Salvatore Martino e a Donato Di Stasi.

L.M.: Sì, ma al fondo dobbiamo prima di tutto ricordare un bisogno spontaneo di emersione dal basso, come era in basso quella saletta del Notegen dove ci si incontrava e che noi chiamavamo “la sala infera”.

Cosa vi appartiene e cosa rifiutate?

F.L.: Credo che in questi anni, spesso al di là dei nostri interessi e delle nostre consapevolezze, la rivista si sia caratterizzata per la capacità di accogliere e ospitare un po’ tutte le voci dell’attuale società letteraria. Lo so che è un gioco pericoloso, ma si tratta di un pericolo necessario. Scegliere poetiche o autori da pubblicare a monte è qualcosa di troppo castrante, e mi sa di troppa partigianeria. La vita letteraria non può essere chiusa dentro argini ben definiti. La nostra rivista è in realtà lo specchio fedele dell’epoca che nel bene e nel male stiamo vivendo.

L.M.: Già, la volontà sarebbe proprio questa. Riuscire a dare uno specchio davvero fedele e comprensivo di tutto ciò che alimenta le nostre esistenze, al di là anche della letteratura, al di là di qualsiasi nicchia. Ma per fare questi passi ulteriori c’è bisogno di sconfinare, di passare da un’idea di letteratura idealizzata e astratta a un uso politico della parola, un uso più concreto e più responsabile, dalla letteratura fino alla politica. Ed è proprio questo passo il più difficile, il più aperto verso gli altri, che sta ormai motivando le nostre scelte verso una direzione ben precisa.

F.L.: Oltre che come rivista, «Línfera» nasce come movimento. E anche i movimenti letterari, quelli che vanno rispettati, hanno come finalità ultima la meta politica. La nostra direzione è cresciuta numero dopo numero, evento dopo evento. È sufficiente leggere alcuni articoli per capire quanto la nostra direzione sia sempre di più una direzione politica. Parlando con noi, Franco Ferrarotti e Antonio Debenedetti hanno detto cose che altrove non si possono più dire. Per non parlare di Piergiorgio Welby, di cui «Línfera», da subito, ha messo in risalto l’eccezionalità della figura: Ocean Terminal è un’opera tanto letteraria quanto politica.

Una grande figura è sempre presente su «Línfera», Piergiorgio Welby. Ce ne parlate?

L.M.: Come non parlarne. Piergiorgio Welby è stato per noi la coincidenza fra tutte le coincidenze. L’incontro che sembra destinato. Francesco, per dirla tutta, è il nipote di Welby, ma è stato anche l’amico e, se vogliamo, l’allievo di Piero. Insomma, mi ricordo di quando Francesco ci ha proposto di pubblicare gli scritti più creativi dello zio, di quando ci ha svelato il segreto e ci ha raccontato del narratore, del poeta, del pittore Welby. Mi ricordo di quando Francesco mi ha portato il plico di fogli scritti al computer da Piero, dove c’erano parti stampate in blu, altre in nero, altre in rosso. Un malloppo di testi in costruzione, ma straordinari. Piergiorgio era ancora vivo, sarebbe morto qualche mese dopo. Francesco fece in tempo a portargli a casa il numero 1 di «Línfera». Piergiorgio ne fu molto contento. Siamo stati i primi a pubblicare i brani di Ocean Terminal e siamo stati quelli che hanno reso possibile la pubblicazione del suo romanzo con un editore importante come Castelvecchi.

Aprendo «lìnfera» per la prima volta cosa si scopre?

F.L.: Che c’è un’aria diversa. Che si respirano le motivazioni di una nuova spinta generazionale. Tutti si sono sempre affannati a chiedersi: «Ma “Línfera” è di destra o di sinistra?». E invece noi ci collochiamo dalla parte della vita, ci interessa il merito, ci interessa costruire. Non importa stare da una parte o da un’altra, scrivere vuol dire responsabilizzarsi, trovare un ruolo all’interno della collettività e imparare a svolgerlo nel migliore dei modi. Nella sua sostanza più profonda, «Línfera» è contro gli egoismi. Non importa che io faccia qualcosa per me, è importante fare insieme le cose per tutti.

Come si stabiliscono i contenuti dei vari numeri?

L.M.: Cercando la spontaneità. Rispondendo agli stimoli che arrivano dall’esterno, dagli eventi che produciamo, dalla nostra osservazione del mondo, a partire da quanto ci è più vicino, provando a guardare oltre, seguendo i collegamenti delle cose.

A chi date voce?

L.M.: Prima parlavamo del merito. È chiaro, non è qualcosa che si può pesare con la bilancia. Ma c’è dell’altro. Qualcosa comunque di tangibile…

F.L.: Qualcosa che ci faccia dire: «Questo qui può correre con noi, può essere funzionale agli obiettivi del movimento, può andare incontro alla vita».

Avete istituito anche un premio di poesia. Come sta andando?

L.M.: Bene. Siamo molto soddisfatti. Il Premio, che si chiama “Quaderni di línfera”, ha prodotto una collana di poesia, grazie anche al sostegno dell’editore Progetto Cultura. Una collana che volevamo diversa. E volevamo un Premio pulito. E così è stato. Volevamo riuscire a creare uno spazio meritocratico. E lo dimostra il caso di Francesco Onìrige, il vincitore della prima edizione, che da perfetto sconosciuto, da esordiente, ha vinto con noi, ha pubblicato nella nostra collana, e con lo stesso libro, Macerie, è poi arrivato finalista al Premio Luzi e al Premio Laurentum, facendosi strada di fatto in una società letteraria altrimenti chiusa e troppo spesso clientelare.

Un ricordo indelebile della vostra avventura.

L.M.: Ce ne sono tanti. Ci sono tanti momenti importanti. Tanti obiettivi raggiunti: la prima volta in pubblico, la prima volta alla radio, la prima volta in televisione. E poi tanti piccoli aneddoti, che sembrano irrilevanti, ma che contribuiscono a fare la storia della letteratura, come mangiare la pizza con la Spaziani, entrare nella stanza vuota di Piergiorgio Welby, raggiungere Milano in treno per incontrare Guido Oldani.

Un invito a leggere «Línfera».

F.L.: Prima che alla scrittura e alla lettura, «Línfera» invita alla partecipazione.

 

Intervista a cura di Alex Pietrogiacomi

BURLESQUE. Quando lo spettacolo diventa seduzione

È tornata Lorenza Fruci, la caparbia giornalista scrittrice capitolina. E lo ha fatto con un altro libro, un altro saggio dopo il  fortunato Mala Femmena (Donzelli), intitolato BURLESQUE. Quando lo spettacolo diventa seduzione (Castelvecchi).

 

Perché hai scritto Burlesque?

Perché avevo notato che c’era un vuoto culturale che si sarebbe potuto colmare con un saggio che raccontasse la storia e l’evoluzione di questo genere di spettacolo, il fenomeno sociale che è diventato e cosa significa oggi per le donne fare burlesque. Avevo seguito l’arrivo del burlesque con la compagnia Cabaret New Burlesque per il Napoli Teatro Festival nel 2008 e avevo notato che nessuno sapeva di che tipo di spettacolo di trattasse. È stato lì che ho concepito la necessità di questo libro.

Cosa cercavi e cosa hai trovato?

Ho cercato la vera storia del burlesque, quella americana, e ho trovato non un susseguirsi di date e fatti, ma tanti sentimenti. Il burlesque rinasce in America negli anni ’90 per nostalgia, amore e amicizia per quest’arte.

Le storie che più ti hanno colpito?

La storia del museo Exotic World Museum che si trova a Los Angeles, voluto dall’ex ballerina di burlesque Jennie Lee perché mossa dal desiderio di non far morire nel nulla quest’arte che lei aveva nel cuore. Dopo la sua morte, il suo progetto è stato portato avanti dall’amica Dixie Evans, altra ex ballerina di burlesque, che ha aperto il museo nel 1990 e che nel 1991 ha istituito il premio Miss Exotic World per premiare ogni anno la reginetta del burlesque. Oggi le nuove dive del burlesque nascono principalmente da lì. È una storia di amicizia, di nostalgia e amore per un’arte, come avevo anticipato, che ho adorato e che mi ha motivato a scrivere questo libro.

Perché le donne sono così affascinate da questo mondo, forse più degli uomini?

Perché il burlesque recupera prima di tutto la femminilità che le donne negli ultimi decenni hanno perso; e poi perché propone una donna senza modelli di riferimento: la donna del burlesque non ha un corpo standard, ma è unica rispetto alle altre, sia per le sue forme che per la sua personalità e il suo carisma. Tutte le donne possono quindi identificarsi nelle performer (anche se poi fare burlesque non è per tutte). Inoltre il tipo di seduzione che il burlesque presenta non si avvale di aggressività e corpi al vento, ma ironia, giocosità e mistero, caratteristiche che tutte le donne possono utilizzare.

Hai partecipato a qualche corso di Burlesque? Puoi raccontarci qualcosa?

Ho partecipato a diversi corsi di burlesque perché credo che quando si scrive di teoria, se è possibile, bisogna passare anche dalla pratica. Questo non vuole dire però che diventerò una performer, perché il burlesque non è una forma di espressione che mi appartiene, ma consiglio a tutte le donne di seguire dei corsi perché liberano dai complessi, permettono di manifestare delle qualità che sono inespresse e aiutano ad acquisire sicurezza.

Come sono i maschi che si interessano a questo tipo di spettacolo?

Se parliamo di boylesque, cioè gli uomini che fanno burlesque, si può dire che sono quasi tutti attori o performer che sperimentano il burlesque come ulteriore forma di espressione. Se parliamo di uomini che vanno a vedere gli show di burlesque, si può notare che sono uomini che spesso accompagnano le loro donne e che sperano di vedere sempre qualcosa di più di quello che di fatto si vede negli show. Per quanto riguarda la mia esperienza di autrice di questo saggio, ho notato che finora sono stati soprattutto gli uomini ad acquistare e ad apprezzare il mio libro. Ancora non ho ben appreso il motivo, credo però per una curiosità di base nei confronti di questi spettacoli da cui sono affascinati, ma che in fondo in fondo non hanno ben compreso. Per un uomo uno strip o è uno strip o non lo è: non concepisce la via di mezzo che il burlesque propone (che poi è proprio l’elemento che invece piace tanto alle donne). E quindi immagino che un uomo acquisti il libro per capire.

Passiamo a te: continui con l’interessamento verso il mondo dell’eros, sei ancora una Uoma?

Sì, sono ancora una Uoma. Ahimè e per fortuna. È la mia debolezza e la mia forza. Però questo mi permette di riuscire a comunicare sia con le donne che con gli uomini e quindi poi, di conseguenza, raccontare storie. Sai… ho capito cosa “devo fare da grande”: raccontare storie. Non importa in quale forma o linguaggio. Ma è quello che devo fare. E avere una sensibilità sia maschia che femmina mi aiuta.

L’eros, poi, fa parte della vita e credo che continuerò a parlarne e a scriverne.

Come ti senti nelle vesti di scrittrice, oramai possiamo dire che ti sei guadagnata il titolo.

Tu dici? Ancora quando mi presentano come scrittrice non mi riconosco. Non ho mai scritto per guadagnarmi questo appellativo, scrivo per una necessità di comunicare. Però, se il mondo ha bisogno di dati per classificare, allora credo che due saggi per due case editrici importanti mi fanno accedere nell’olimpo degli scrittori. Che poi chi l’ha detto che è un olimpo? Vogliamo parlare del mal di schiena e di natiche che ti procura scrivere per dei mesi interi? Della cellulite che avanza insieme alla gobba? Della vista che cala e del dolore alle mani? Insomma… ma chi me lo fa fare?! Quando si dice “è più forte di me”…

«Prendi il tuo spazio e trova i tuoi simili» e una volta fatto che succede?

Spieghiamo che hai citato dei miei versi che sintetizzano il senso della vita per me. Una volta capito questo, ho iniziato a stare bene. Fino a quando ero circondata da persone lontane da me ero sempre a disagio, così come quando mi capitava di stare in spazi limitati. Ora invece ho trovato la mia dimensione.

Domani per te?

La tv e la radio. Un altro saggio e un po’ di narrativa. E poi di nuovo in piscina a nuotare. Anzi, forse un viaggio in America per un reportage fotografico.

 

Intervista a cura di Alex Pietrogiacomi

Fiume di Tenebra

È la notte di un giovedì quando, venuto a Roma per un reading di Scrittori precari, mi ritrovo a casa del subcomandante Liguori, in attesa dell’Intercity delle 4:28 che da Roma Tiburtina mi avrebbe riportato a Firenze.

Evidentemente non pago di quanto bevuto durante la serata, il subcomandante sfodera una bottiglia di calvados. Dico che non importa, che sono troppo stanco per bere. Lui versa. Mi faccio un bicchiere, poi un altro. Poi un altro.

Aggrappato al tavolo, cerco di posticipare il torpore, che è ottimo per affrontare l’Intercity delle 4:28 (non c’è mai posto e allora se sei bello stanco ti schianti nel corridoio, la borsa come cuscino, e tanti saluti), ma prima devi arrivarci, al treno.

Sto per desistere e chiudere la serata addormentandomi al tavolo con la testa sulle braccia, come a scuola, quando lui attacca a leggere qualcosa:

Nel settembre del 1919…

Visto il periodo e i gusti del subcomandante, penso che possa essere Rilke, il che non mi smuove. Forse, sballando di nove anni, bofonchio un “li leggerò, i quaderni, lo giuro…”, ma lui va avanti:

…arditi, sbandati, artisti di mezza tacca, orge in mezzo alle strade, donne che si davano a chiunque, e gli uomini pure con gli uomini; e la popolazione che veniva nutrita fantasiosamente a cocaina. Ma questo sarebbe ancora un metodo come un altro per vivere, perché il grave era che…

Io alzo gli occhi, troppo sonno e troppo calvados per capire di cosa parli il brano che sta leggendo, ma la buona prosa, insomma, quella uno la riconosce in qualunque condizione. Lui continua:

… aveva ribattezzato la marina militare fiumana con il nome degli antichi pirati dell’Adriatico, gli uscocchi, e l’aveva mandata a derubare le navi degli altri, al grido di eia eia alalà. A Fiume si campava con la pirateria, sebbene si dicesse che,

oltre che sulla provvidenza piratesca, D’Annunzio dovesse fare conto sull’aiuto di qualche banchiere: ma molti troveranno la differenza troppo sottile. E non finisce mica qui, perché si diceva anche che a Fiume erano peggio dei bolscevichi, e che Lenin in persona avesse approvato tutta la questione: Carli e Marinetti, con le bombe a mano nella giacca, a Fiume si presero una bella ubriacatura comunista. Insomma: un puttanaio: un immenso puttanaio.

Mi ritrovo improvvisamente rivitalizzato. E quindi parla di Fiume, questo brano! La storia della Reggenza Italiana del Carnaro l’avevo scoperta già da ragazzino, leggendo “TAZ” di Hakim Bey, e da lì avevo sempre sospettato che questo D’Annunzio qualcosa di buono lo avesse, se nelle sue vene scorreva almeno un po’ d’anarchia, e metteva l’Oroboros sulla bandiera. Mi entusiasmo, gli chiedo di leggermi qualche altra pagina. Lui va avanti, ma ben presto l’orologio sulla parete mi chiama al treno. Raccolgo i miei coccini e chiedo come si chiama quel libro, che lo voglio cercare.

A sentire che è un libro in lavorazione, un libro-italiano-contemporaneo e non un testo ripescato chissà dove, ci rimango secco. Il subcomandante mi promette che appena esce me lo farà avere. Preso il treno, mi addormento nel corridoio lercio

vagheggiando imprese da “disertore in avanti”.

E qualche mese dopo mi arriva davvero, il libro. Bello anche a vedersi, seppiato come uno lo immagina, con la faccetta del Vate in un cammeo. Fiume di Tenebra, si chiama. Di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, Castelvecchi editore 2010.

Leggo di Serra, di Keller, Comisso e Ada, di generali per cui il frustino non è solo una decorazione, di una estate dell’amore (un autunno-inverno, a voler esser precisi) in anticipo di quarantasette anni e di un piccolo D’Annunzio tutto nervi e sogno. Sono piaceri.

Vanni Santoni



Fiume di tenebra – L’ultimo volo di Gabriele D’Annunzio (Castelvecchi, 2010)

di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino

 

[Leggi qui il prologo]

[Leggi qui il capitolo “Aspettando il tenente Keller”]