Si dà il caso che io mi trovi a mio agio con i Michael Laski di questo
mondo, con quelli che vivono fuori dal mondo invece che al suo
interno, quelli il cui senso di terrore è così acuto che ricorrono
all’impegno in cause estreme e disperate; ne so qualcosa anch’io
della paura e apprezzo gli elaborati sistemi con cui certa gente
riesce a riempire il vuoto, apprezzo l’oppio dei popoli in tutte
le sue forme, da quelle accessibili come l’alcol e l’eroina e la
promiscuità a quelle difficili da trovare come la fede in Dio o
nella Storia.
Joan Didion
Una grande città dell’Europa occidentale
Lui.
Ho pensato alla morte molto spesso. Da quando ero piccolo e, se ricordo bene, le mani non arrivavano alla maniglia di una porta. Mio padre mi sgridava e io morivo soffocato. Mia madre mi negava qualcosa e io morivo impiccato. La processione al funerale era una cosa straziante e io piangevo più degli altri. Ero un maestro dell’autocommiserazione. Ho iniziato a scrivere allora. E non ho mai smesso. Continuo a commiserarmi.
Mi hanno insegnato un mucchio di cose, nel corso degli anni, ma nessuna di queste cose è stata capace di chiarirmi perché sono così e continuo ad essere così come sono.
Come sono è facile da spiegare: Leggi il resto dell’articolo
«(…) la semplicità è la qualità più difficile da ottenere, less is more,
ci vuole più tempo a scrivere un libro corto che un libro lungo.»
(p. 52)
Simone Rossi continua sulla strada dell’autoproduzione: su croccantissima (leggi l’estratto pubblicato su SP la scorsa settimana) c’è scritto che «questo libro non ha una casa editrice» e che «puoi ordinarlo a silkeyfoot@gmail.com».
Me lo immagino con i racconti in tasca – lo so, non è difficile immaginarlo visto che lo conosco – che li tira fuori e li legge come se fossero canzoni – anche se in fondo al libro dice che lui non legge, ma vi assicuro che la chitarra la suona. In queste storie – ma alla fine è una sola, e si capisce che ci sono vari fili tirati tra una storia e l’altra, anche se per vederli ci vuole orecchio – in queste storie, dicevo, si sente che c’è la musica, e il ritmo, le strofe e ritornelli, e i testi delle canzoni fioriscono un po’ ovunque – e poi nel mezzo capita anche la storia di questo cantante, questo Elliot Smith che intervistarlo «è come lanciare una palla a un cane», perché «invece di scodinzolare e correre a prenderla rimane lì piantato e ti guarda un po’ imbambolato». Leggi il resto dell’articolo
La telefonata è arrivata al giornale, data come prioritaria: sono partito. Sono impietrito. È una delle cose peggiori che abbia mai visto, orripilante, eppure attorno a me tutti sembrano soddisfatti e orgogliosi, i pescatori si alternano nelle foto, qualcuno sta girando un video col telefonino, ci sono anche i volontari di mezza età con i giubbotti arancioni che hanno stappato alcune bottiglie, poi il protagonista principale torna padrone della scena. Mi guarda. Si aspetta che inizi a intervistarlo, si pulisce il palmo delle mani sul gilè verde militare, ma l’odore tremendo aumenta, la cosa è ormai da troppo tempo all’asciutto sulla riva del laghetto artificiale. Ha occhi enormi, delle dimensioni di un occhio umano, ma meno sporgenti. Dovrei chiedergli con quale esca ha catturato la carpa gigante. Quanti minuti di lotta hanno preceduto la cattura. Cose così. Ormai il pesce-siluro è arrivato al quintale, ma quell’intruso extracomunitario non fa più notizia. Però una carpa nostrana di quaranta chili non si vedeva da tempo. Forse non si era mai vista. I pescatori fuori dal casotto assentono consultandosi in brevi mugugni. È un segno della Storia. Un risveglio della fauna indigena da intendersi come sintomatico di qualcosa di più generale. E importante. La cosa in realtà pare abbia lottato con molta violenza, ma per pochissimi minuti, forse drogata da mangimi o indebolita dalla vecchiaia. Leggi il resto dell’articolo
Abbiamo di fronte a noi un mese che ha tutte le potenzialità per essere qualcosa di lontano dagli stanchi rituali della mobilitazione che da anni hanno perso la capacità di incidere sulle contraddizioni della realtà politica e sociale italiana. Le date che si inanellano dal 9 aprile al 6 maggio possono diventare l’occasione per mettere a punto una “direzione culturale comune” attraverso cui interpretare le condizioni di vita e di lavoro in Italia e pensarne quindi la successiva trasformazione. Ma non solo. Dovremmo far nostra l’ambizione di libertà che si respira nel Mediterraneo, ritrovando la forza di credere che la Storia non la fanno solo gli eserciti e i capi di Stato. La contingenza storica che stiamo attraversando ci invita a sollevarci dal soporifero letto di piaceri immaginari che narcotizza le nostre vite, farla finita con la raccolta di testimonianze, e piuttosto scegliere la parte di chi lascia solo testimoni attorno a sé; invece di emozionarci esclusivamente per le piccole storie, non potremmo riscoprire la passione inattuale per la Storia?
Considerato che non sono un appassionato di spy story e di thriller, che il genere entra poco nel novero delle mie letture, questa storia scritta a quattro mani dai liguri Daniele Cambiaso e Ettore Maggi è stata una piacevole sorpresa – forse perché c’è qualcosa in più di una storia di spie.
La narrazione de L’ombra del destino procede per vicende parallele, scritte, secondo quanto apprendiamo in un’intervista recente a cura della scrittrice Marilù Oliva, con una «scaletta di massima, nella quale gran parte delle idee della trama e degli snodi narrativi» si devono a Cambiaso, laddove Maggi ha lavorato al prologo e al montaggio delle scene.
Si apprezza nel libro la compattezza stilistica delle stesure, che bene sembrano amalgamate in un lavoro che punta giocoforza molto sulla vicenda; i due scrittori si sono distribuiti le parti e le hanno perfettamente incastrate poggiando essenzialmente sulle voci alternate dei due protagonisti.
Si chiamano Stefano e Giulio, sono due studenti universitari e vengono coinvolti in una brutta storia di terrorismo mentre gli anni di piombo volgono al termine. Alla situazione in realtà sono estranei – e alla Storia, quella dei libri, sono destinati a partecipare come pedine in mani altrui. Per scampare il carcere difatti Stefano verrà fatto ispettore di polizia e Giulio tenente dei carabinieri. Al servizio di qualcuno che potrà manovrarli a piacimento, i due conosceranno traffici d’armi, mafie del nordest, formazioni militari che combattono nella ex-Jugoslavia, servizi segreti e una congerie di personaggi sinistri coinvolti in ambigue trame politiche.
Il destino nel titolo è quello che lega i due amici – non degli sprovveduti (se non all’inizio della storia), e tuttavia impossibilitati a modificare il corso degli eventi; è anzi la consapevolezza di far parte di un meccanismo troppo più grande di loro e che annienta alle fondamenta l’illusione di un paese democratico, ciò che spicca nel respiro stesso della narrazione. Due storie destinate a incrociarsi, costruite in soggettiva, e che hanno il merito di far percepire al lettore il racconto dal di dentro – il lettore sa solo quello che sanno i personaggi, al netto delle proprie capacità intuitive, si capisce –, il che crea la tensione e l’attesa implicite in questo genere di narrativa. La necessità di leggere nella cronaca una controstoria della politica “deviata” è evidente ma non nuoce al romanzo – i rischi di didascalia li corre piuttosto nel dire troppo qualche volta, nell’utilizzare immagini non sempre di primo conio, privilegiata com’è la funzione denotativa della lingua. I dialoghi fanno il loro duplice mestiere, di farci conoscere i personaggi e mandare avanti la storia (si mente in abbondanza in questa storia, e mentire è un’azione); insomma, sono serrati quanto basta e tengono bene il ritmo. L’ombra del destino è il primo titolo di una nuova collana Gialli Rusconi che si presenta in una confezione editoriale apprezzabile e qualche refuso di troppo.
Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi (Mondadori, 2010)
di Alessandro Piperno
“Persecuzione” è una rete di filo spinato che cade addosso al lettore e che non riesce ad essere scrollata via. Anzi, più si tenta di districarsi da questa trappola letteraria e più il filo spinato stringe, ferisce, apre la carne.
“Persecuzione” non è un titolo, non è il Titolo di questo romanzo, ma la protagonista assoluta di tutta la storia.
Attraverso le voci dei protagonisti, dei loro pensieri in piena che travolgono ogni argine, inondando la realtà, sembra sempre di leggere di qualcosa o qualcuno di cui non si parla, sembra sempre aleggiare uno spettro fatto di memorie autoriali, di fantasmi ricoperti di parole che prendono forma sulla pagina. Sembra di leggere in filigrana, in una chiave molto superficiale, aspetti di Piperno, le paure reali che durante le sue interviste apparivano soltanto in merito al ritardo della sua nuova fatica letteraria. Ma questo tipo di sensazione dopo un po’ svanisce, ricostituendosi in maniera più opprimente e sicuramente più adesa al titolo/protagonista stesso. Alla Persecuzione. Ritorna a prendersi l’inchiostro e a farne sicario contro i nostri pensieri. A un certo punto si sublima anche l’autore e si entra completamente nello stato di angoscia che soltanto il titolo può imporre.
Ma di chi, da cosa sì è perseguitati? Bisogna cominciare dall’inizio.
La storia è ambientata a Roma, in una capitale di anni fa, forse per molti di millenni, quella del 1986, in una famiglia normale, anche se qui la normalità ricorda quella dei romanzi statunitensi che devastano l’american dream, dove il dottore Leo Pontecorvo è il padre-Dio per prole e moglie, amici e colleghi, conoscenti e vicini. Protagonista indiscusso (così pare) della storia.
Un uomo che brucia le tappe, un oncologo di fama, un docente attento, un collaboratore del Corriere della Sera, cinquantenne, ricco, avvenente, ebreo. Adoratori i due figli maschi, che vedono il padre straordinario poggiare la sua mano protettiva sui loro capi che guardano disordinatamente al futuro. E poi Rachel, la moglie, l’ex studentessa innamoratasi del suo docente, la donna che soddisfa i piccoli capricci del consorte, che mantiene uno status quo fatto di amore indiscutibile e profuso, la ragazza ebrea dei quartieri bassi tanto osteggiata dalla suocera benestante al tempo del matrimonio.
Su questo quadro arriva la mano di un deturpatore e il coltello usato per squarciare la tela è un’accusa di molestie sessuali al professor Pontecorvo ai danni della fidanzata dodicenne di suo figlio.
È qui che la tela non regge più e il taglio si fa più profondo, incisivo, si dilata e svela il vaso di Pandora che del coperchio non ne può più, svela l’intima rabbia di Rachel nei confronti del marito (già peraltro accusato di truffa), dei suoi amici, dei suoi modi infantili di (non) affrontare la realtà, svela il narcisismo parossistico di Leo, la sua incapacità di allontanarsi dal bambino ebreo viziato che era e tutti i suoi razzismi (anche nei riguardi della moglie, ebrea di piazza, di bassofondo), le sue paure. E comincia la Persecuzione, della moglie, dalla moglie, di Leo, da Leo… figli, amici, inflitta e auto inflitta, fino a prendere un ruolo concreto nei gangli della storia che in sé racchiude come un’ implosione capace di aprire una voragine famelica in chi legge.
Il protagonista assoluto è Leo? Così pare, si diceva, perché tutto il flusso di coscienza a cui assistiamo guidati dalla voce di chi la famiglia Pontecorvo l’ha conosciuta, e che fagocita anche quello della moglie, sembra essere un Titano che lascia le sue impronte su ogni pagina, divenendo, ripetiamo, primo attore. Forse nel lato buio del palco.
Nel successivo libro, finale del dittico che Alessandro Piperno aveva in mente, si può sapere cosa accadrà, come tutto andrà.
Un romanzo eccelso che non segna un ritorno ma sicuramente un nuovo inizio.
Nel settembre del 1919 il poeta Gabriele D’Annunzio entra a Fiume per restituirla alla sua patria.
Questo per gli storici, i politici e i generali.
Ma l’impresa di Fiume, almeno per chi vi partecipò, per i legionari Arditi, per i poeti e le anime perse, per l’eroico aviere Guido Keller, per tutti quelli che, in quel finale di guerra, trovarono così difficile tornare a casa, non fu esattamente questo. E, anzi, la maniera radicalmente diversa in cui questi ultimi vissero Fiume, Città di Vita, fu all’origine di non poche drammatiche conseguenze; tali che i patrioti entrati a liberarla, i granatieri, i bravi carabinieri del generale fedelissimo al re Rocco Vadalà, se ne dovettero uscire via subito, pieni di sdegno e di imbarazzo: Fiume era un vero puttanaio: Arditi, sbandati, artisti di mezza tacca, orge in mezzo alle strade, donne che si davano a chiunque, e gli uomini pure con gli uomini; e la popolazione che veniva nutrita fantasiosamente a cocaina. Ma questo sarebbe ancora un metodo come un altro per vivere, perché il grave era che a Fiume, per vivere, il cibo e i soldi il Comandante D’Annunzio se li procurava come un ladro. E certo, perché, con il suo estro da poeta, il Vate aveva ribattezzato la marina militare fiumana con il nome degli antichi pirati dell’Adriatico, gli uscocchi, e l’aveva mandata a derubare le navi degli altri, al grido di eia eia alalà.
A Fiume si campava con la pirateria, sebbene si dicesse che, oltre che sulla provvidenza piratesca, D’Annunzio dovesse fare conto sull’aiuto di qualche banchiere: ma molti troveranno la differenza troppo sottile. E non finisce mica qui, perché si diceva anche che a Fiume erano peggio dei bolscevichi, e che Lenin in persona avesse approvato tutta la questione: Carli e Marinetti, con le bombe a mano nella giacca, a Fiume si presero una bella ubriacatura comunista. Insomma: un puttanaio: un immenso puttanaio.
Drammatiche conseguenze, perché, si capisce, la questione era delicata: quando finalmente il governo italiano avrebbe messo fine a quello schifo, cosa avrebbe pensato la gente? Che si stava sparando su altri italiani? Su dei patrioti che avevano voluto restituire una città italiana all’Italia? Oppure avrebbe pensato che si faceva un’accorta e doverosa piazza pulita di anarchici, puttane e schifosi vari?
Si può essere sicuri che chi comandava, lì a Roma, Nitti prima, e poi Giolitti, dovettero pensarle tutte, e non sapevano più a che santo votarsi: cercarono di convincere D’Annunzio in tutti i modi a tornare indietro, a fare il bravo, ma quello doveva essere impazzito e, anzi, che D’Annunzio era diventato matto da ricovero lo dissero e sottoscrissero pure Badoglio e Mussolini, spediti a farlo ragionare.
Le provarono tutte, certo, prima di arrivare alla tragedia che si sarebbe consumata nel Natale del 1920, quando le truppe italiane, comandate dal generale Caviglia, entrarono nella città di Fiume, nell’Olocausta, nella Repubblica del Carnaro, e si misero a sparare.
Le provarono tutte.
E non solo il governo italiano: verso la fine, dicono che un’organizzazione clandestina, non meglio identificata in quanto a nazionalità e intenti, preparò un attentato contro D’Annunzio. Non si capisce se l’attentato prendesse le mosse da Vienna o da Roma; o da entrambe le città. La storia è confusa.
Dicono, inoltre, che prese parte a questo attentato anche l’eroe di guerra, il patriota Italo Serra, capitano della dodicesima compagnia dei Lancieri di Novara.
Ma su questo punto la Storia, malgrado sia proprio la storia che stiamo per raccontare, è ancora più confusa.
E, in fondo, è onesto dire fin dal principio che questa storia potrebbe non essere mai avvenuta; potrebbe non essere mai capitata a nessuno.
* Prologo del romanzo Fiume di tenebra – L’ultimo volo di Gabriele D’Annunzio(Castelvecchi). Da ottobre nelle librerie.
Una terra meravigliosa e ribelle sceglie la strada dell’insurrezione, con un poeta a capo della rivolta e un manipolo di anarchici, avventurieri e arditi pronti ad accorrere per sostenere rivendicazioni che parlano di giustizia e di libertà. Questa è Fiume all’indomani della Prima Guerra Mondiale.
Per molti un esempio da seguire ma, per il governo italiano, soltanto uno scandalo da sopprimere il prima possibile. In attesa che l’esercito dei Savoia compia il suo dovere, una congiura internazionale ordisce un piano per attentare alla vita di Gabriele D’Annunzio. L’esecutore di un simile intento è Italo Serra, un ufficiale specializzato in missioni coperte: uno dei tanti soldati che non possono e non vogliono tornare a casa dopo l’esaltazione tragica che il conflitto ha instillato nelle menti di una generazione di combattenti.
Durante gli ultimi giorni di vita della reggenza dannunziana, nel corso del Natale di Sangue del 1920, quando le truppe regolari del generale Caviglia spazzeranno via il sogno fiumano, il capitano Italo Serra – ammaliato dalle personalità dello scrittore Giovanni Comisso, del tenente Guido Keller e della bella Ada – scoprirà come tutto ciò in cui ha creduto fino a quel momento sia soltanto un inganno: un’illusione fatta rivivere attraverso pagine sorprendenti, dedicate al lato sconosciuto del tentato omicidio di Gabriele D’Annunzio e a un episodio della storia contemporanea italiana a lungo rimosso e mistificato.
Un dono. Questo romanzo è un piccolo capolavoro che riesce a raccontare una storia e una terra, di cui si conoscono di più solo gli aspetti vacanzieri, senza perdersi in finti omaggi alla narrativa italiana e senza fronzoli di alcun genere. Un libro in cui c’è solo la storia di una vita raccontata dalla vita.
Soreni è un paese della Sardegna dove si fa fatica a capire le cose. Dove le persone sono strette come fasci di erba alle loro vite quotidiane. Le chiacchiere che passano di sguardo in sguardo, mentre le mani camuffano le intenzioni delle bocche, sono vento che spesso porta odore di terra bruciata. Un paese che fa parte di una tradizione antica quanto la lingua stessa e dove italiano, sardo, storia e latino si uniscono a creare famiglie, amori e legami. Qui il passato non resta mai tale e fa fatica ad essere sepolto.
Maria vive a Soreni, è una bambina di troppo in una famiglia che ha poco. Una bambina che diventa figlia di anima di Tzia Bonaria Urrai, la sarta del paese. Una donna rispettata e rispettosa. Una di quelle antiche immagini di cui non era facile capire quanti anni avesse perché “[…] erano anni fermi da anni, come fosse invecchiata d’un balzo per sua decisione e ora aspettasse paziente di essere raggiunta dal tempo in ritardo”.
La povertà e il menefreghismo della madre di Maria e la sterilità di Bonaria, creano un legame in cui i grandi silenzi, gli spazi lasciati inesplorati e le parole che raschiano il sole diventano ogni giorno più forti. Una famiglia non di sangue che vive in mezzo alle stoffe della sarta e allo sguardo di Maria che, giovane, ascolta la voce di Tzia Bonaria anche se spesso non ne capisce il senso, ma ascolta consapevole che “[…] non tutte le cose si ascoltano per capirle subito”.
Tutto sembra scorrere, tutto va nella direzione degli sguardi che seguono la coppia mentre cammina per le strade del paese. Occhi che puntano e giudicano. Occhi che però sanno qualcosa che sfugge alla piccola Maria, ancora incapace di cogliere i particolari che si nascondono nella pelle tesa degli adulti.
Una notte serve a far porre domande. Una notte soltanto, in cui il sonno è meno divertente delle ombre proiettate nella stanza. Un inverno del 1955 quando la piccola aveva otto anni e mezzo.
Sentire rumori e vedere Tzia uscire nell’oscurità accanto ad un uomo alto, nero in volto e sentirsi subito ammonire dalla figura della “madre”: “Torna in camera tua”. Obbedire e addormentarsi tra pensieri e silenzio. Silenzio e innocenza.
Da questo punto in poi accade qualcosa, qualcosa di silenzioso, di strisciante, che non intacca il rapporto di amore tra le due, che fa andare avanti la spinta dell’anziana a far studiare la sua protetta, a farla applicare. Accade qualcosa di più subdolo. Più complicato. Accade che la vita mette di fronte ai fatti e le campane a morto che si sono sentite dopo l’uscita notturna di quell’inverno non smettono più di riecheggiare.
Cosa aveva fatto e cosa faceva Tzia Bonaria? Perché si alludeva sempre a lei con timore reverenziale nelle chiacchiere di paese e tra amici?
I giorni di Bonaria Urrai si fondono così con quelli di Maria Listru, insieme a molte delle cose che accadranno, che altro non sono che parodia delle cose pensate. In una rincorsa verso il mare, tra i campi, gli amori segreti, le facce arse dal sudore e dal sole, verità e innocenza svelata, scivola “Accabadora”. La storia di una donna che è voce di due donne. Accabadora che in sardo significa “Colei che finisce”. L’ultima madre di molti che è la prima vera madre di Maria.
Commenti recenti