Quattro Visioni

di Francesco Quaranta

A metà del mio percorso mortale, come malattia, l’intolleranza per il mondo crebbe in me. La febbre inquieta calò una coltre di turbolento, formicolante fradiciume e mi gettò nel ventre del delirio. Quando questo si squarciò, partorì le visioni.

Nella prima ero solo sulla sconfinata Terra sovraffollata di uomini che brancolavano, ottenebrati e prudenti, in una tremenda nebbia lattea. Loro unica luce e direzione erano gli Idoli: costruzioni di organicità eterea commista a solidità cristallina, articolati palazzi di cerimoniali e imperativi. Protrudevano da loro cordoni fibrosi e guizzanti, s’affondavano nella nuca di ogni uomo a concedere loro un conforto sintetico. Così questi erravano, calpestandosi l’un l’altro nel timore di smarrire il Bene ed i beni. Ma proprio come tutti gli edifici, gli Idoli avevano delle pareti, dei limiti.
Senza indugio scelsi di spezzare questa gabbia: afferrai un paio di tentacoli che penetravano le spine di uomini maturi, strattonai e li liberai. Urlarono, sperduti, spaventati e senza guida, trasmutarono in infanti dalle proporzioni gigantesche che strillavano la loro disperazione raggomitolati a terra, sbavanti.
La visione non era tale, compresi, sussisteva la necessità di agire. Posi perciò le tremanti mani dei due lattanti l’una nell’altra. Il pianto cessò ed essi riacquistarono l’aspetto adulto, illuminati dalla certezza nata con quella stretta. A cascata, i due uomini liberi strapparono i vincoli di ogni Idolo dai loro simili per sostituirli con un legame paritario, mano per mano. La nebbia si diradò rapida e la vista fu invasa ovunque da una sublime luce e dalla natura rigogliosa; gli Idoli crollarono con nulla più che gran rumore per lasciare soltanto affascinanti leggende.
Gli umani, monolitica catena, si strinsero ancora, maggiormente consci e fiduciosi della loro unione. l’Umanità, messe radici nel terreno vivo e fertile. Crebbe fino alle nuvole come titanica simbiosi.

La seconda mi trovò solitario di fronte all’immenso Albero dell’Umanità interconnessa, immensa, maestosa e sicura. Ognuno aveva un Leggi il resto dell’articolo

GNAP! – la tecnica dello schiacciapatate

Riportiamo l’intervento di Jacopo Nacci comparso su Yattaran

Prima o poi mi deciderò a compilare e pubblicare un elenco delle fallacie e delle mosse retoriche subdole che si stanno propagando in Italia in questi anni in modo massiccio e preoccupante: basti pensare all’uso diffusissimo e spensierato dell’argomento a uomo o del processo alle intenzioni. Temo abbiamo a che fare con la prole deforme nata dalle Nozze di Relativismo e Televisione: si tratta di fallacie e mosse che il loro stesso substrato ideologico incorona come uniche forme retoriche moralmente legittime; il medesimo substrato ideologico, intanto, rovescia senza pietà argomenti e dimostrazioni nel cestino delle dialettiche immorali; tutto ciò sta trasformando una parte della popolazione in troll (nel senso internautico) e l’altra parte in soggetti schizofrenici costretti a interrogarsi e rispondersi da soli; se gli schizofrenici che si interrogano e si rispondono da soli mi fanno venire in mente Socrate in Gorgia 506c-507c, i troll mi fanno venire in mente – più che sofisti come Gorgia, Callicle o Polo – i puffi neri, o i film di zombie dove i virus si impossessano dei cadaveri; e credo sia significativo che, nella filmografia sugli zombie, gli zombie si siano fatti via via sempre più rapidi e aggressivi. Leggi il resto dell’articolo

Il migliore dei mondi possibili?!

Il 3 febbraio del 1848 lo studioso Willmore Vly tenne presso la Society Library di New York una conferenza sui temi della cosmogonia, del tempo e della teleologia.

Dagli appunti di quella conferenza nacque un libro che Vly intitolò Esperienze sperimentate. In questo volume, il nostro autore espose un’affascinante teoria riguardo la sua personale concezione della vita, della sua nascita e della sua “necessità”.

Si può dire, banalizzando, che la sua teoria verteva un po’ sulla teoria dell’infinità dei mondi di Giordano Bruno, della relatività einsteiniana e della missione predestinata del calvinismo. Cosa ci dice Vly nell’unica opera che diede alle stampe (fatta eccezione per una orribile poesia in distici pubblicata su una rivista letteraria di terz’ordine a Baltimora)? Ci dice che il nostro mondo, quello che viviamo ogni istante, ogni singola azione, viene ripetuta all’infinito in una precisa zona spazio-temporale esterna alla nostra coscienza e allo spazio-tempo di cui abbiamo percezione.

Egli sostiene che ogni volta che «solleviamo un bicchiere colmo d’acqua, da qualche parte una nostra copia ripete quel gesto in tutti i suoi dettagli, consentendo al corpo di cui abbiamo percezione di poter portare quel bicchiere alle labbra».

Volendo accostare questa immagine, volutamente complessa, di Vly, possiamo dire che secondo lui ognuno di noi è come l’immagine in movimento di un film, dietro cui vi sono gli infiniti fotogrammi che permettono la figurazione di quel movimento.

Da qualche parte nel tessuto spazio-temporale dell’universo Carlo Magno viene continuamente incoronato nella notte di Natale del ‘400, i coniugi Curie muoiono per le radiazioni dell’uranio, Hitler saluta la folla inneggiante all’alba della sua nomina a Cancelliere. Queste azioni, però, non si svolgono per intero, ma infinitamente frazionate, colte in ogni movimento delle cellule dei protagonisti. Per ogni globulo rosso che si muove, per ogni mitosi, per ogni osmosi, per ogni respiro esiste la copia di ogni singolo essere o elemento o oggetto: un gioco di specchi che si ripete infinitamente.

Quindi, per Vly, da qualche parte c’è il sopracciglio di Leonardo da Vinci che perde una ciglia, ci sono tutti i “fotogrammi” di questa ciglia che cade fino a raggiungere il pastrano del genio de Le Vergini delle rocce; da qualche altra parte c’è Simemon che batte sui tasti della macchina da scrivere e tutti gli scricchiolii delle sue articolazioni si conservano immutate nella loro cella spazio-temporale; e, da qualche altra parte ancora, Mata Hari si trucca per andare in scena, ripetendo in eterno una precisa occhiata alle sue calze di seta.

Willmore Vly non prevedeva le teorie che, a distanza di più di due secoli, avrebbero ipotizzato la deformazione dello spazio-tempo come se si trattasse d’una sciarpa lisa, eppure le precorse. Forse aveva cognizione di Bruno e dei suoi infiniti mondi e li ha reinterpretati in maniera abbastanza originale, ma sicuramente conosceva l’opera di Calvino. Difatti, com’è noto, Edgar Allan Poe ritrovò nella stanza ammobiliata in cui Vly viveva (e in cui si suicidò ingoiando la lama del proprio rasoio) l’opera omnia del filosofo svizzero nella pregiata edizione delle Pleìade. Con Calvino aveva in comune la concezione del futuro in quanto predestinazione. Infatti, anche Vly viveva nella convinzione di essere immortale o, almeno, di non poter morire prima di aver concluso la sua missione.

Tuttavia, la sua ipotesi sulla cosmogonia non è completa. Se fosse vero quello che asserisce, bisognerebbe ipotizzare che tutti i “fotogrammi” che consento alle azioni presenti di verificarsi sono strettamente concatenati come veri e propri film. E allora, anziché un film, sarebbe più esatto parlare di veri e propri microcosmi simili a sassi che creano increspature sulla superficie d’una pozzanghera: una fa scaturire la seguente e così via a effetto domino.

È inquietante pensare di vivere in un universo dove i bambini della Shoa vengono infornati continuamente, dove all’infinito Hiroshima viene devastata, dove la sofferenza e la distruzione sono elevate alla n. Per consolarsi bisognerebbe pensare che è lo stesso universo in cui, all’infinito, si ripetono le singole gioie, i fiori, le primavere, le nascite, i sorrisi.

Forse Vly, teorizzando questa infinita reiterazione, ha voluto creare un calcolo infinito alla fine del quale un contabile superiore, quantificando la dose di male e di bene che l’umanità ha ricevuto e prodotto, fosse costretto ad ammettere che bene e male si equivalgono per qualità e quantità. E che, in ultima analisi, per tutti c’è la speranza d’essere felici in maniera proporzionata all’eventualità d’essere infelici.

Questo basta a fare di Vly un ottimista? Per alcuni basterebbe. Sicuramente non era un sostenitore del libero arbitrio, né poteva essere un meiorista convinto. Eppure doveva trattarsi d’un essere intimamente fiducioso. E ingenuo.

Deve essere stato un duro colpo, per lui, ingoiare quel rasoio e rimanerci secco, constatando di non avere nessun altra missione che giustificasse la sua esistenza.

E deve essere stato anche peggio immaginare quel momento che si sarebbe ripetuto all’infinito nella sua atrocità.

 

Antonio Romano

La famiglia di pietra – un estratto

La famiglia di pietra (Round Robin, 2010)

di Gregorio Magini

 

Adele parlava di qualcosa di incomprensibile che non c’entrava niente. Vauro si scostava i capelli dalla fronte in continuazione come se fossero sferzati da vento e pioggia.

«Ti ricordi tua nonna? Giacomo era troppo piccolo ma tu avevi sette otto anni. Diceva “pazzo e pazzo non fa mazzo”. Non voleva che Claudio mi sposasse, perché diceva che aveva il pazzo anche lui. Salutami tua madre. Come sta? Che signora elegante. Lo so che è sciocco, ma mi sono sempre sentita un po’ in soggezione davanti a lei. E che cuoca eccezionale. Mi insegnò il pollo alle mandorle. Fu la prima a importare i piatti cinesi negli anni Settanta. Peccato che tutte queste larghe vedute non le abbia poi messe a frutto, ma d’altra parte, non vedo come sarebbe stato possibile. Io non sono neanche in grado di accendere un computer…». Continuò su questo tenore per un quarto d’ora, poi invitò Vauro ad andare salutare Giacomo, che era come sempre in camera sua.

«Giacomo?» chiamò dolcemente la mamma bussando sulla porta di camera. Udirono dei tonfi, dei passi rapidi e pesanti, mormorii, e un aprirsi e chiudersi di ante e sportelli.

«Giacomo, c’è una persona in visita. È Vauro».

Nella stanza si fece silenzio. Vauro, alto una testa più della zia, aspettava alle sue spalle.

«Giacomo? Che cosa fai?».

Vauro aspettava in silenzio con le mani nelle tasche dei jeans. Si ricordava di Giacomo come un ragazzino magrolino e taciturno. La zia gli aveva detto: «Sapessi quant’è cambiato. Non lo riconoscerai mai». Gli aveva detto anche: «È molto reclusivo».

«Aspetta!» esclamò Giacomo.

Tramestò per la camera per un minuto, poi chiamò: «Avanti ma solo Vauro!».

La madre dischiuse la porta e si fece da parte per lasciar passare il nipote. Giacomo si fece all’uscio e le disse concitatamente:

«Scusami mamma è una questione di prossimiglianza capisci sicuramente vero sì».

E chiuse la porta.

Vauro guardò la stanza. Gli parve, dapprima, che fosse del tutto spoglia. Le pareti lo erano. I mobili pure. Il fatto era che stava tutto per terra. Fogli, libri e vestiti, tutto sparso sul pavimento. Un sentiero angusto si faceva strada tra gli oggetti dall’ingresso al letto, con una ramificazione che giungeva sotto la finestra.

Senza che avesse avuto modo di guardarlo in faccia, Vauro si trovò a cercar di afferrare quello che Giacomo gli aveva preso a dire. S’era inginocchiato sotto un tavolo, rovistava e diceva qualcosa su qualcosa che cercava. Era in mutande. Una canottiera azzurra gli metteva in evidenza il fisico solido e un po’ corpulento. Vauro, stupito, guardava le grosse cosce, le gambe pelose e tozze, i piedi in calzerotti bianchi scivolare sulla minutaglia sottostante nel tentativo di puntellarsi. Voleva vederlo in viso. La zia gli aveva detto anche:

«È introverso, ma dà retta come sempre. È un ragazzo d’oro».

«Che cerchi Giacomo? Ti posso dare una mano? Perché non vieni fuori un secondo?».

«È importante che voi vi asteniate dall’ora delle decisioni irrevocabili come se ci fossero decisioni revocabili vecchio mio» gli rispose il cugino.

«Ma di che parli?».

Giacomo smise di rovistare ed esclamò:

«Parlo dell’aria odierna di mistero, della necessità di astenersi dal male e di operarsi per il bene. Posso darti del lei?».

«Del lei?».

«Sì vorrei darti del lei in segno di rispetto perché ti voglio bene».

«Comincia che esci di là sotto».

Uscì con un peluche in mano: un ippopotamo marrone.

«Questo è Ippopazzo. Io lo chiamavo Ippocastano, ma Gloria preferiva Ippopazzo».

Finalmente poté osservarlo. Una faccia larga, zigomi a punta, quasi vietnamiti. Occhi stretti e vispi. Una peluria rada e ispida, capelli corti, disordinati e unti. Vauro si chiese quanto gli assomigliasse. Tacque in attesa; del resto, non sapeva che dire.

«Stamattina ho fatto le pulizie di primavera. Mi mancano solo i capolavori».

Indicò una libreria alta e sottile, in cui sopravviveva un’unica fila di volumi.

«Hai fatto questo stamattina?» allibì Vauro.

«Ho staccato prima i poster e le foto e ho tolto gli altarini».

«Gli altarini?».

«Sì vedi per esempio lì sul cassettone c’era una cartina di un Ferrero Rocher che mi aveva regalato Liala alla fine del Novecento. Accanto ci avevo messo una cartolina dal Giappone e un mattoncino rosso che avevo trovato sulla spiaggia di Spalato».

«A Spalato?».

«Sì, era pieno di ricordi. Ho dovuto levare tutto. Siedi qui e chiudi gli occhi».

Lo accompagnò al piccolo letto scompigliato. Vauro si lasciò trascinare con docilità. Gli aveva detto la zia: «Ha tante, tante cose da dire. Se hai la pazienza di ascoltarlo, è un tesoro vero». Giacomo armeggiò.

«Apri gli occhi ora» disse. «Vedi questa cornicetta che ti mostro di retro? Di davanti c’è una fotografia di Gloria, e ascoltami bene: non te la faccio vedere, piuttosto ti ammazzo».

Nonostante le parole, il tono non parve a Vauro troppo serio, per cui, ma anche d’impulso, provò ad allungare un mano per voltare la cornice. Giacomo scattò all’indietro e si buttò di faccia sul materasso, difendendo così la foto con tutta la stazza del corpo. Con il collo girato e metà faccia perciò tra le coperte,  disse:

«Mamma ti ha detto quello che ci è capitato ma non ha detto di babbo dov’è né che fa perché non lo sa. Tu lo sai?».

«Zio Claudio? Non ne so nulla. Ma non sa niente? Nessuno l’ha avvertito? E dov’è?».

«Non importa sarà qui per terra. Prendi un foglio, ci sta che lo trovi».

Vauro prese un foglio.

«Leggiamolo».

«Vuoi che legga ad alta voce?».

«Sì grazie mille grazie».

Era stampato, ma coperto di correzioni a matita. Per trarne un senso, Vauro dovette ignorarle tutte:

«Ora una mosca mi ronza d’intorno. Sembra cosa da niente e lo è. A un primo momento, non è che ho pensato “ecco una mosca che mi ronza d’intorno”. Sono rimasto teso e concentrato e silenzioso e ho continuato a studiare. Ma l’orecchio s’è accorto e l’ho perso dietro la mosca». Vauro saltò alcune righe: «Ora è un movimento piccolo e scuro e anche l’occhio lo coglie e lo segue, e presto tutto il corpo gli crede e teso e in silenzio si mette in agguato. Una lieve angoscia si somma alla mosca. La mano formicola e la mano scatta e il palmo si abbatte sul dorso e il piccolo scuro movimento formicolante si ferma. La mosca è morta e il mio corpo si rilassa, gli occhi tornano a non guardare e l’orecchio a non ascoltare. Ma con fatica, perché la mente torna alla mosca che non ronza d’intorno e l’angoscia è la stessa ma senza mosca, ed è più lenta da assorbire per la mente».

Alzò gli occhi verso il cugino in cerca di spiegazioni. Ma Giacomo non disse niente. In quella, Adele bussò e chiamò:

«Ragazzi volete far merenda?».

Vauro fu preso da uno stordimento. Quello che gli avevano sempre detto a casa, che quel ramo della famiglia Conforti era una gabbia di matti, era vero. L’aveva dubitato, ma non poteva non ricredersi. La zia lo condusse in cucina – Giacomo non volle saperne – e gli offrì tè e biscotti. Era così stordito che non riuscì ad ascoltarla. Gli diceva qualcosa di pratico sul funerale, in tono neutro, come se si trattasse di una pratica uggiosa ma inevitabile. Mangiò i biscotti al burro meccanicamente e poco dopo si trovò fuori, in mezzo a gente che trafficava su e giù per la via senza parere. In mano aveva un assegno in bianco e dei fogli con indicazioni e numeri di telefono: il giorno, il luogo, l’impresa di pompe funebri, il fioraio… Su uno era scritto:

“Epitaffio: GLORIA CONFORTI 1983-2004 / AD MAIOREM GLORIÆ GLORIAM”.

Restare o partire?

Coraggioso è chi resta. Come possiamo pensare di lasciare questa terra devastata in balia di tale smarrimento? Ma poi, dico, non siete curiosi di vedere come andrà a finire? Essere in prima linea a scoprire fin dove si potrà spingere l’assurdo, questa non-vita, questa politica, questa società che è una farsa di una farsa.

Non è guerra, ma è come se fosse, come non fosse mai finita. È una repubblica ancora bambina, Italia, vittima di stupro. Io la conosco, o almeno credo, le voglio bene, è parte di me, devo aiutarla a superare la tragedia di cui è stata vittima impotente. Da sola, non ce la può fare.

No, non me ne voglio andare. Ogni tanto ci penso, ma poi mi passa subito. Perché devo arrendermi e andarmene dalla mia terra, dal mio paese? Come posso abbandonare la mia lingua, le mie radici seppur sradicate?

Non condanno chi se ne va, come potrei, ma io non ce la farei proprio. Troppi morti non sono bastati. Troppe ingiustizie, vestite da misteri, restano impunite. Dimentichiamo in fretta, indotti. Si cambia la storia, o forse ricordavamo male. La verità è finzione. La storia ribaltata.

Italia, ferita a morte, cede il passo. Nulla più indigna, nulla sconvolge. Le porte del futuro sono serrate, aprono al nulla.

Verità è finzione. Il germe dell’odio coltivato sin dall’infanzia. Il male, travestito da bene, dice di voler combattere il male. Molti gli credono. Italia non è cambiata, regredisce.

Il problema è al vertice. La base è distratta, ma stimolata reagisce. Bisognerebbe arrivarci. Sono bloccate le vie di comunicazione. Embolia.

Focolai sparsi in tutta la penisola. Abbiamo mezzi incredibili. Ora più che mai non si può abbandonare. Ora più che mai bisogna resistere.

Saremo pure una minoranza, ma siamo una minoranza consistente, e se qualcosa abbiamo imparato in ore chini sulle pagine di un libro, è proprio che la cultura è libera, non conosce prigioni, non subisce imposizioni. Bisogna lavorare ogni giorno per cambiare, non bisogna arrendersi. Oggi più che mai.

In quanto uomo di lettere di questo paese, non debbo mai dimenticare il debito morale contratto con la mia società quella maledetta notte di novembre, quando un poeta fu brutalmente assassinato, e messo a tacere per sempre, all’idroscalo di Ostia. Come una sorta di peccato originale mai purificato.

Ci sono ancora poeti e scrittori da scoprire e da difendere, in questo mostro, Italia, ferito a morte, che dobbiamo curare.

Tra i loro compiti, quello di svegliare il dormiente.

Gianluca Liguori

*Testo ispirato dagli interventi di Simone e Claudia.