Appunti biodegradabili dalla terra della fantasia – 6

Scrivendo 6 sul titolo mi sono reso conto che è già un mese e mezzo che vivo qui. Sono meno stressato e vado meno di corsa di quando vivevo in città. Anzi no, non vado meno di corsa, le cose da fare non mancano mai, sono solo meno stressato, ma quanto a correre si corre lo stesso, sono cambiati i modi della corsa, i momenti, i motivi. Ma combatto le stesse battaglie di una volta. Ogni tanto vado a Roma, poi ritorno. L’ultima volta che ci sono stato, la scorsa settimana, è stato terribile. Il traffico: come sempre la strada fino all’uscita di Roma nord era libera ma, giunto sul raccordo, che ve lo dico a fare. Sarà pure che mi sono presto abituato a guidare sulle tranquille strade di provincia, ma quando mi trovo nel traffico divento insofferente. Prima non ci pensavo, forse per abitudine, ma oggi è così allucinante pensare alle ore, le giornate spese a fare file, file alla posta, file alla cassa del supermercato, file di macchine e ore a cercare parcheggio. E giri, rigiri, sbuffi, quello sta uscendo, no, non esce, giri, giri ancora, continui a girare, si spegne una spia del livello del gas, i minuti sull’orologio si susseguono, lo stesso attimo eterno, immobile, mentre scorre, scorre il tempo, tiranno, cannibale, ti mangia. Leggi il resto dell’articolo

Lavorare, passeggiare, raccontare

Con la manifestazione del 9 aprile, che ha segnato un primo tentativo di unire in uno stesso corteo lavoratori (e non) accomunati dall’orizzonte della precarietà (anche se provenienti da contesti diversi),  è stata scattata la fotografia ancora parziale di una famiglia allargata, trasversale alle classi sociali e alle generazioni. Farsi vedere e raccontarsi, superare il senso di vergogna (magari per la differenza tra le aspettative e la realtà) e la paura del ricatto (sul luogo di lavoro), in una parola manifestarsi, rimane assolutamente necessario. Non basta infatti farlo una sola volta, ma deve essere pratica quotidiana e (possibilmente) condivisa. È questo il senso degli Stati Generali della Precarietà 3.0: tre giorni d’incontri che si terranno a Roma nel segno della condivisione di strumenti e strategie, dove «parlare dei nostri desideri, della libertà che vogliamo riprenderci, della forza che vogliamo far esplodere».

Simone Ghelli

Quello che segue è il programma dettagliato delle tre giornate:

Venerdi 15, @ LOA Acrobax [via della vasca navale,6]
dalle ore 19 accoglienza e concerto di Asian Dub Foundation

Sabato 16, @ GENERAZIONE_P RENDEZ-VOUS [via alberto da giussano, 59]:

dalle 21.00: serata di festeggiamento dei primi 6 mesi di occupazione di Generazione P – rendez vous
cena
+ proiezione della videoinchiesta sulla precarietà “Inpreca video”
+
proiezione del docufilmLampedusa next stopa cura di Insutv (presenti gli autori)
a seguire dj set

Domenica 17, @ Volturno [via Volturno, 37]:

9 Aprile, Stati Generali della Precarietà, Sciopero Generale. Prendiamo parola.

Abbiamo di fronte a noi un mese che ha tutte le potenzialità per essere qualcosa di lontano dagli stanchi rituali della mobilitazione che da anni hanno perso la capacità di incidere sulle contraddizioni della realtà politica e sociale italiana. Le date che si inanellano dal 9 aprile al 6 maggio possono diventare l’occasione per mettere a punto una “direzione culturale comune” attraverso cui interpretare le condizioni di vita e di lavoro in Italia e pensarne quindi la successiva trasformazione. Ma non solo. Dovremmo far nostra l’ambizione di libertà che si respira nel Mediterraneo, ritrovando la forza di credere che la Storia non la fanno solo gli eserciti e i capi di Stato. La contingenza storica che stiamo attraversando ci invita a sollevarci dal soporifero letto di piaceri immaginari che narcotizza le nostre vite, farla finita con la raccolta di testimonianze, e piuttosto scegliere la parte di chi lascia solo testimoni attorno a sé; invece di emozionarci esclusivamente per le piccole storie, non potremmo riscoprire la passione inattuale per la Storia?

La mobilitazione nazionale del 9 aprile, “Il nostro tempo è adesso”, gli Stati Generali della Precarietà, il 1 maggio e la May Day, hanno in comune la volontà di ordinarsi, per necessità, nel paradigma della “condizione precaria”. Leggi il resto dell’articolo

La marcia dei libri contro la politica dell’evasione

C’è una cosa che colpisce più di tutte, della giornata del 14 dicembre: più della compravendita dei voti, delle strategie politiche, delle reciproche accuse.

Ciò che colpisce, a mio avviso, è l’inarrestabile fuga della politica nel mondo della finzione.

L’immagine, per la seconda volta in pochi giorni, dei luoghi istituzionali isolati dal resto della città, non può più essere definita semplicemente emblematica; è reale. Essa non rappresenta, bensì indica la distanza, la spaccatura che si è creata tra chi non fa che parlare (verbo da cui d’altronde deriva il termine parlamento) e chi il diritto alla parola deve invece conquistarselo giorno per giorno.

La cosa che più colpisce, che fa male, è questa indifferenza della politica nei confronti di una generazione (quella degli studenti) e di una condizione (della precarietà), alla quale questi stessi ragazzi non vogliono arrendersi.

Mentre la maggioranza dei deputati sventolava il tricolore con la foga del tifo da stadio, l’Italia, quella di domani, urlava la propria sfiducia per le strade. Faceva davvero uno strano effetto, vedere il passato che plaude a se stesso; sembrava di rivedere un film di Visconti, dove la Storia non è mai protagonista, eppure se ne sente la presenza, il suo rumore distruttivo che avanza.

Ciò che invece non colpisce più, è la solita trita abitudine a liquidare tutto con certe parole; a ridurre un fenomeno vasto e complesso come una manifestazione costituita da varie componenti, all’immagine di alcuni episodi di violenza.

Ciò che non colpisce più è l’incapacità della politica di dare risposte, di creare valide alternative; l’ipocrisia con cui ci si scandalizza davanti a questo spettacolo incivile (figurarsi, poi, a ridosso del Natale), quando a indignarsi sono gli stessi che non si risparmiano in risse televisive e parlamentari.

Ci lamentavamo, fino a ieri, dell’incapacità di questi “giovani” di creare un fronte comune, di rivendicare i propri diritti; li accusavamo di essersi adeguati in silenzio alle leggi della flessibilità.

E invece si sono schierati coi loro libri, dove trovano più risposte che nella politica. Certo, sarebbe stato bello vederci anche un Bertolt Brecht, scritto fra quegli scudi; al drammaturgo tedesco non sarebbe dispiaciuto affatto lo spettacolo di questo gesto sociale, del prolungamento della letteratura al di fuori della pagina scritta. La linea dei book bloc, il fare fronte comune dietro lo scudo dei libri, può essere infatti preso come atteggiamento di una società che non si riconosce più nel teatrino della politica; di una generazione che non vuol più partecipare alla messa in scena nei panni dello spettatore passivo. Quelle immagini più volte riviste, dell’avanzare dei titoli scritti a caratteri cubitali, costituiscono insomma l’esibirsi del processo stesso, di un percorso che attraverso la lettura ha portato alla presa di coscienza, allo smascheramento della grande finzione; il delinearsi talmente preciso di un atteggiamento da essere riproducibile in condizioni e situazioni diverse, da essere citabile nel senso in cui l’intendeva Walter Benjamin proprio rispetto al lavoro svolto da Brecht.

Ed è proprio questo che è successo: dall’Italia a l’Inghilterra, da Roma a Londra, uno stesso gesto contro i tagli alla cultura e all’impoverimento del futuro prossimo.

Simone Ghelli

12-14 dicembre 2010: i tre giorni che sconvolsero l’Italia

Poi hanno spento la luce. E non mi son più svegliato.

Bombe e orologi fermi, tanto per cambiare. I tre giorni che sconvolsero l’Italia, e chi se li dimentica. Tutto cominciò la mattina del 12 dicembre, tanto per cambiare. Dopo 41 anni. Poco dopo mezzogiorno un’edizione straordinaria del telegiornale dava la notizia di un’esplosione a Piazza Fontana. Durante le commemorazioni della strage. Uno sfregio, si pensò in molti. Ma nessuno poteva immaginare quello che ne conseguì. D’altronde gli eventi precipitarono in fretta.

Il presidente del Senato Schifani, poche settimane prima, in seguito all’assalto degli studenti a palazzo Madama, aveva detto: “Da tempo ci sforziamo con i nostri appelli e richiami al senso di responsabilità di tutti ad abbassare i toni per evitare che l’aumento degli episodi di violenza e di intolleranza in occasione di manifestazioni pubbliche possa trasformarsi in gesti non solo incivili ma anche forieri di eventi luttuosi”. Ci scappa il morto, detto in parole povere. Ròba che rimpiangi Cossiga, per dire.

Intanto i due ragazzi fermati il giorno dell’assedio al Senato non venivano rilasciati. Le università iniziarono lo stato di mobilitazione permanente. Gli atenei occupati in tutt’Italia. Un giorno c’era manifestazione, e l’altro pure. Agli studenti, a poco a poco, s’affiancò la società civile: non solo operai, precari e insegnanti, ma anche immigrati, lavoratori stanchi e indignati, persino i pensionati. Ovunque, i centri cittadini paralizzati. Festa e protesta. Il governo era in piena crisi: il 14 dicembre la Consulta avrebbe dovuto pronunciarsi sul legittimo impedimento mentre in Parlamento si sarebbe dovuta votare la fiducia. Tutto ciò se.

Ma cerchiamo d’esporre i fatti, sebbene siano confusi, seguendo l’ordine cronologico degli eventi che hanno generato il corto circuito. Ad esempio, è importante dire, che le forze dell’ordine, stanche delle botte date e di quelle subite, e di troppi straordinari non pagati, dopo dieci giorni di scontri e delirio cominciarono a scioperare pure loro. Cioè, non tutti, ma una buona parte sì. E, viene da sé, la degenerazione che ne è seguita.

I neofascisti e i leghisti al nord e gli uomini delle varie cosche al sud, e gli ultrà tutti, infervorati dal sobillamento generale, ne approfittano, ciascuno per la sua causa, per entrare in azione. I primi morti, il 7 dicembre, furono a Napoli, Roma e Milano, durante le colluttazioni. Pallottole vaganti, tanto per cambiare. Ma attraverso telefonini, telecamere e internet le immagini hanno fatto il giro della penisola (e non solo). Così ebbe inizio la caccia all’uomo. L’obiettivo: gli uomini che avevano sparato, e ucciso.

Era tutto un risuonar di sirene. Tutti contro tutti: non si capiva chi stava con chi, contro chi, per cosa, contro cosa. Nessuno, però, ce la faceva più. E, in molti, ambivano ai posti di governo, o di comando, per ingrassare, o per costruire. Vendette, rappresaglie: guerra civile, un delirio mai visto in tanti anni di storia complicata. Molti si chiusero nelle case, chi poteva abbandonava le città. Una nuova sconosciuta paura catturava, inaspettatamente, l’attenzione degli italiani. Dopo vent’anni a riempirsi le giornate col vuoto dell’intrattenimento televisivo. Lo sbandamento di fronte all’inconsueto. Le abitudini sovvertite. Dovettero persino sospendere i campionati di calcio. Le chiese, di domenica e non solo, ripresero ad esser frequentate. Si sa, che quando s’è in difficoltà, dio è l’amico più vicino, l’amico più facile. Si piange il morto e si prega dio. I morti nelle strade erano ormai più di quelli sul lavoro.

Voi mi capirete, signori miei, se il racconto è confuso. Voi c’eravate, avete visto, avete partecipato, eravamo tutti in strada, ognuno schierato, come fantasmi che non sanno dove andare. La prima bomba scoppiata a Brescia, il 12 dicembre 2010, non era solo uno sfregio. La colpa fu data dapprima agli islamici, poi agli anarco-comunisti dei centri sociali. Qualcuno diceva che era stata la mafia, altri dicevano che erano stati i fascisti. Qualcuno diceva che erano stati ambienti deviati della massoneria, altri ancora dicevano che era stato lo Stato. In molti sospettavano che fascisti, mafiosi, massoni e servizi segreti erano tutti d’accordo. Naturalmente, è presto per la verità. E poi, si sa, quando scoppiano le bombe, qui in Italia, la verità non si scopre mai.

Le strade, già piene di gente, dopo la bomba di Brescia si colorarono di un frastuono atroce, ancor più incazzato. Cariche improvvise spezzavano i cortei con azioni di guerriglia militare, poi si disperdevano, dileguandosi. Assalti neofascisti alle università di tutta Italia, scontri violenti, tre morti, giovani, ragazzi. Figli di madri e padri che avranno vita distrutta. Quella notte, tra il 12 e il 13 dicembre 2010, in un’operazione combinata, esercito, polizia e carabinieri fanno irruzione negli atenei occupati e arrestano centinaia di studenti. All’alba, col territorio sgomberato, i neofascisti si prendono le università.

Alle 8 e 47 della mattina del 13 dicembre un’esplosione alla stazione metro Pinciopallo sveglia la città di Roma. I giornalisti non fanno in tempo a batter l’ansa che alle 8 e 52 un’altra bomba, questa volta a Milano, esplode nei pressi della stazione metro Tiraturati. Le linee fisse saltano, le comunicazioni sono interrotte. Alle 9 e 26 scoppia un’autobomba davanti alla procura di Reggio Calabria, alle 9 e 31 un’altra autobomba esplode davanti al palazzo di Giustizia di Firenze. Alle 9 e 48 un aereo di linea viene dirottato sulla Questura di Palermo. Ecco servito il nostro 11 settembre. Alcuni temono sia ritornata la guerra.

Il Consiglio dei Ministri vara un provvedimento straordinario in cui destituisce il Presidente della Repubblica, incaricando delle sue funzioni il Premier. Viene determinato lo stato d’emergenza. Le elezioni vengono bloccate a tempo indeterminato. Viene istituito il servizio d’ordine d’emergenza nazionale (a cui spetta il compito, inoltre, di controllare casa per casa e scovare eventuali dissidenti). Si firma un’amnistia che fa uscire dalle carceri 45mila detenuti.

Il 14 dicembre, a reti unificate, e per la prima volta, su tutti i profili di facebook, il presidente del Consiglio dichiara che va tutto bene, ci penserà lui, qualche morto cosa volete che sia, l’importante che tutto sia finito e che l’Italia è un grande paese. In molti, durante il messaggio, si sono sentiti sfondare la porta di casa e visti prelevare e portare via. L’ultima cosa che ho saputo, signori, è che oltre a me, hanno portato via quasi mezzo milione di persone.

Poi hanno spento la luce.

Gianluca Liguori

25-11-2010

 

Trauma cronico – Una classe politica che va a puttane

È mai possibile o porco di un cane che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi puttane

Fabrizio De André

Una volta erano storie d’amore e di coltello, oggi di trans e cocaina. L’ultimo scandalo gossipolitico riguarda l’ex giornalista Piero Marrazzo, che dal 2005 ricopre la carica di governatore della Regione Lazio. La storia è confusa e complicata, e come tante vicende italiane pare sia colorata di misteri, ricatti, giochi di potere e di poltrona.

Mi chiedo: a chi avrebbero fatto comodo nuove elezioni per il Consiglio della Regione Lazio?

La storia è becera, e non starò qui a ripeterla, tanto più che ne parlano tutti e dappertutto. Hanno ragione quelli che dicono che le classi dirigenti dei nostri partiti politici vanno a puttane.

E la classe operaia? A puttane anche quella, solo che va con quelle di strada, più economiche.

Ci sono uomini che mille euro li guadagnano in un mese, quando va bene, e con quelli ci mantengono moglie e figli. E ogni tanto, quando si può, trenta euro bocca e fica. Col rischio di una multa salatissima da far saltare il bilancio familiare.

Ci sono uomini che mille euro e più li spendono per una serata con una escort, che mette in cassa, esentasse. Poi i conti dello Stato non tornano…

Mi chiedo: ma non sarebbe meglio una leggina che legalizzasse la vendita dell’amore, così se pure a qualcuno di potente piace andare a puttane o farsi inculare da un trans, sarebbero pure cazzi suoi… e poi non farebbero niente di illegale, all’opinione pubblica dovrebbero da rendere solo su una questione morale, ma parliamoci chiaro, cosa vuoi che se ne frega, la gente, di questi tempi, con tutti i problemi seri che ci sono, con il lavoro che non c’è, se un politico va a puttane? Qui, in Italia, tutto va a puttane…

Un mio amico è disperato perché gli hanno chiuso la sezione incontri del sito Bakeca. Pare che vi fossero annunci che nascondevano prestazioni a pagamento. Lui preferiva andare in appartamento, si sentiva sicuro e gli piaceva di più. Adesso non può. Come lui, immagino, tantissimi. Sarebbe antropologicamente interessante vedere una protesta dei consumatori d’amore, una manifestazione per la fica!

Sono millenni che l’uomo paga in cambio di un’illusione d’amore o più volgarmente per svuotare i sacchetti, e niente mai potrà fermare quest’istinto primordiale. La prostituzione esisterà sempre, non credo sia eticamente corretto proibirla. Da proibire è lo sfruttamento, il racket e tutte le storie di violenza criminale che ci sono dietro, da salvaguardare ci sono donne giovanissime, esseri umani indifesi, ancora oggi, anno domini 2010, ridotti in schiavitù. I diritti fondamentali sono quotidianamente stuprati.

Ipocrisia, in questo paese, Italia, mai sarà abolita.

Gianluca Liguori