Il Fungo – #gunstreet

fungodi Domenico Caringella

Mi è capitato di leggerne per la prima volta nel verbale di un vecchio caso, mentre facevo delle ricerche per la Disciplinare sull’attività del tenente Bednarik. Nella sua relazione Chuck come al solito divagava e così aveva scritto che le gambe del “Fungo” avevano lasciato una doppia scia di sangue, “un binario morto” che portava dritto dritto al garage di casa. Adoro i treni. Abbandonai per il momento Bednarik e seguii il binario.
Oggi posso concludere che perdere il padre, più o meno insieme all’innocenza, sarebbe stata la cosa peggiore che potesse accadere a Jim Bob McIntyre III Leggi il resto dell’articolo

Confessioni qualunque – 14

[Ricordiamo ai lettori che Confessioni qualunque, la rubrica curata dai ragazzi di In Abiti Succinti, è aperta a chi voglia scrivere una confessione. Fatelo anche voi! Svisceratevi! E poi inviate i vostri racconti.]

#14 – Pierluigi

di Nicola Feninno

Che resti fra noi.
Quella dell’evidenziatore non è stata affatto una buona idea.

Lo sapevo che al primo esperimento, alla prima stranezza, l’avrei pagata. Queste cose non sono nelle mie corde. E pensare che lo dico sempre ai miei ragazzi dell’ultimo anno: inseguire l’originalità a tutti i costi non porta da nessuna parte; finisce che ti metti a copiare qualche altro ‘alternativo’ o che non ti capisce nessuno e la tua arte ti resta chiusa dentro. E quello che ti resta dentro fa male. Appunto.

Prendete Fontana, quello dei tagli nelle tele: ha avuto un’idea originale, ok, è finito sui libri di storia dell’arte e ha fatto anche Leggi il resto dell’articolo

Senza parallelo – una recensione a Sforbiciate di Fabrizio Gabrielli

[I lettori più attenti senza dubbio ricorderanno Sforbiciate, la rubrica – nata sulle ceneri de Il mondiale dei palloni gonfiati – di Fabrizio Gabrielli, che ha accompagnato i lunedì di SP durante la stagione calcistica 2010/11. Da quella rubrica l’editore Piano B ne ha fatto un libro. Lo hanno letto per noi Matteo Salimbeni e Vanni Santoni]

“Le idee dei grandi uomini sono patrimonio dell’umanità; ognuno
di loro non possedette realmente che le proprie bizzarrie.”

M. Schwob

Si può scrivere di calcio partendo da un dato, una partita, un gesto tecnico e svilupparlo in modo epico (o di cronaca); oppure si può partire da un dato immaginario, metterci un pallone, due squadre, un fischio d’inizio e lavorarci intorno e giocarci. Nel primo caso il lettore esperto di calcio è chiamato a confrontarsi con la rielaborazione che l’autore fa di un dato condiviso, del quale conosce i protagonisti e sul quale magari si è già fatto un’idea. Nel secondo caso, il lettore può pure non saperne nulla di calcio, l’importante è credere a quello che ti dice l’autore. Arpino, col suo Azzurro tenebra, partì da un angolo di storia ben preciso: i mondiali del ’74, e ci tirò su un paesaggio stellare, fatto di eroi, scontri titanici, drammatiche rese e colpi bassi, profezie a bordo campo e inevitabili tragedie, epiteti, litanie, scongiuri e sbronze leggendarie. Soriano se lo costruiva quell’angolo. Con un po’ di polvere, delle erbacce, i mapuches, Togliatti, la Patagonia. Fatto il campo da gioco, si inventava una partita. E magari la faceva pure arbitrare al nipote di Butch Cassidy. Gabrielli fa ancora un’altra cosa. Il suo Sforbiciate (Piano B, 2012) Leggi il resto dell’articolo

La mia solitudine sei tu

E così non avresti capito troppo bene dov’è il Daghestan. Bene. Hai presente San Pietroburgo? Fatti un giro per Prospektiva Nievskij che poi c’è da viaggiare lungamente. Attraversa la tundra tra Krishi e Novgorod, tira dritto per Tver’, arriva a Mosca. Rotola ancora verso sud. Kolomna, Tula (tu l’avevi mai vista, Tula?), ora tutta a babordo. Passa nei pressi di Penza, pensa, un posto che si chiama Penza, e arriva fino a Tol’jatti. Non è servita a granché, questa sgroppata di millemila chilometri, però vuoi mettere: ora sai che è vero, che esiste una città che si chiama Tol’jatti. Non Togliattigrad: Tol’jatti. Soggiorna al Chocolate Hotel, se ce la fai, val bene una messa, è in Strada Avtostroiteley, sul sito c’è scritto Dolce vita!, ròba che a Togliatti sarebbe venuta l’alopècia. Non gira un’anima, per le vie di Tol’jatti. C’è solitudine. Impregnatene.

Ora sei pronto per l’ultimo tratto. Lambisci Volgograd: una volta si chiamava Stalingrado. Attraversa la cintura di fuoco dell’instabilità caucasica, Inguscezia Ossezia Cecenia, e tira dritto verso mare. Quando vedi il cartello con le indicazioni per Makhachkala, ecco, bene: sei arrivato in Daghestan.

Daghestan significa “che sta tra le montagne”, ed infatti dove sta? Sul mare.

Nella capitale, che si pronuncia mac-ciacalà, c’è una squadra di calcio, pure in Daghestan, pure a Makhachkala, che se vai su Wikipedia c’è la foto d’un cantiere, per dire.

Quella squadra si chiama Futbol’nyj Klub Mackhackala, anži Machkhačkala, Anži Mackhačkala. Anži fa parte del nome.

Le cose importanti da dire sull’Anzi, chiamiamolo così, sono molto banali: miracolo più che sportivo economico, fondato solo venti anni fa il club ha latitato nelle serie minori finché non è arrivato il petroliere ricco sfondato di turno, nella fattispecie Sulejman Kerimov, uno di quei magnate col conto a svariati zero: uno che si può bullare d’avere nel portafogli un discreto numero di azioni di Sberbank e Gazprom, per dire. I gasdotti passano tutti per il Daghestan, fatti due calcoli, il petrolio e il gas e i capitali sembrano chiamare il pallone a scacchi un po’ ovunque, figuriamoci a sud dell’Inguscezia, e insomma Kerimov la vuole proprio, una squadra tutta sua. Nel duemilaquattro prova ad acquistare l’aèsseroma, ah la dolce vita!, poi non se ne fa niente; due anni dopo rischia di morire in un incidente stradale a Nizza, ah la douce vie!, anche lì non se ne fa niente; però questo giocattolo calcistico lo vuole a tutti i costi, Kerimov. Ora mi compro il Tottenham, anzi il Rosenborg, anzi il Fc Vaduz, anzi: l’Anži Machkhačkala.

La notizia che ha fatto scalpore ultimamente è stata quella dello sfizio non-proprio-cheap di Kerimov: l’ingaggio faraonico di Roberto Carlos. Un colpaccio.

Figlio d’una sarta e d’un orologiaio, Roberto Carlos quanto sia famoso lo capisci dall’ovazione che gli tributano i settantamila del Maracanà ogni volta che fa il suo ingresso sul proscenio.

Dopo gl’incoraggianti esordi in Brasile, è successo che Roberto Carlos poi un bel giorno ha fatto il suo arrivo in Italia: viaggiava che era una meraviglia, ogni esibizione macinava – quanti saranno stati? – venti, trentatre, quarantacinque giri, nel piedino i friccicori del samba, delle sgroppate sulla fascia, delle bombe dal limite. Una bella vita invero, ah la dolce vita, quella di Roberto Carlos.

Sì, stiamo facendo confusione: questo Roberto Carlos non è quel Roberto Carlos, è il cantante, magari te lo ricordi, magari se lo ricordano tua mamma e (meglio) tua nonna. I musicarelli, Gianni Morandi, Sanremo con Sergio Endrigo. Hai presente quella canzone che fa la mia solitudine sei tu? Ecco, non è di Iva Zanicchi: è di Roberto Carlos.

 

No, non è di questo Roberto Carlos che Kerimov s’è assicurato i servigi per nove-milioni-nove di euro l’anno: l’oligarca, ai suoi privatissimi vernissaggi sul pontile di Ice, il duecentonovantatre anzi duecentonovantacinque piedi ancorato sul Mar Caspio, preferisce la sbarazzineria di Shakira e Christina Aguilera.

Ad indossare la maglia biancoverde del Futbol’nyj Klub Mackhackala, anži Machkhačkala, Anži Mackhačkala è il Roberto Carlos che magari hai rimpianto da tifoso dell’Inter, il fuciliere dello Stade de France, il pluricampione con le merengues madrilene, quello che se non si rasasse la pelata avrebbe un cespuglio afro, va dicendo in giro, quello che una volta gli han chiesto Do you ever stand in front of the mirror to take in the full splendour of your thighs? How big exactly are they? Do you have to get your trousers specially made? ed io ho letto things al posto di thighs, ho preso cose per cosce.

Ti metti mai davanti allo specchio a rimirarti il pieno splendore dei tuoi cosi? Quanto sono grossi esattamente? Hai dei pantaloni fatti apposta?, m’era sembrato di leggere, e immaginate lo sconforto quando ho intraletto sessanta centimetri, poco sotto, anche se poi in quell’intervista Roberto Carlos dice un sacco di cose intelligenti e da intenditore del calcio, ed io che avevo preso cosi per cosce. L’intervista è questa, se vuoi leggertela.

Roberto Carlos, poi, un pomeriggio l’hanno presentato allo stadiucciolo di Mackhackala, gli hanno messo sulle spalle ed in testa i vestimenti delle popolazioni daghestane, fatte di pelli di montone, e lui ha sorriso ai fotografi, anche se si vedeva lontano un miglio quanto si stesse struggendo per l’infausta scelta d’incucularsi tra le montagne, nel Daghestan, nella città-che-è-tutta-un-cantiere, dove non c’è granché da fare, e se nello stereo comincia a suonare quella canzone, la mia solitudine sei tu, son lacrime che non le fermi facilmente, sai.

 

Fabrizio Gabrielli

La linea infinita

La rubrica Interlinea ƒ64 nasce dalla collaborazione tra La Rotta per Itaca e Scrittori precari: una volta al mese, uno scrittore, leggendo tra le righe di una fotografia, ci racconterà una storia in profondità di campo.

Quello che segue è il secondo racconto.

di Ilaria Mazzeo da una foto di Andrea Pozzato

 

Da Rogoredo a Stazione Centrale ci sono undici fermate della linea gialla della metro.

Sara lo sa perché le ha contate sulla cartina, e le sembrano inaffrontabili, infinite; ostili.

Tutto è ostile, da due anni a questa parte.

Inizia a scendere le scale, con il cuore che ogni tanto, le pare, salta un battito; ma poi lo recupera in velocità.

Sara si fa forza stringendo in mano il suo ciondolo. Glielo ha regalato suo padre, molto tempo fa. Poi si tocca la pancia, e attraverso la maglia sente quel calore che la rassicura. Sembra dirle: «Non sei sola».

Sola lo è stata, per tanto. Percorrendo il lungo corridoio che porta ai tornelli, Sara cerca di non pensare a quello che sta facendo, ma non ci riesce. Butta le chiavi di casa in un cestino, e prosegue, rasentando il muro, con la gente che la supera velocemente, senza degnarla di uno sguardo.

L’idea gliel’ha data Julia Roberts.

Qualche sera prima, in tv, ha visto un vecchio film con lei protagonista. Il titolo era stupido: A letto con il nemico, ma Sara ha seguito con grande attenzione, mentre suo marito russava nell’altra stanza.

Nel film, la diva Julia è sposata con un animale che la picchia e la umilia in tutti i modi; i due vivono in una casa bellissima con vista sull’oceano, e il pazzo è un uomo alto, prestante, con folti capelli neri.

Sara e suo marito vivono in un bilocale con vista sui binari della stazione di Rogoredo, e lui non somiglia proprio per nulla a un attore americano; per il resto, però, la situazione è la stessa. E lei, come la Roberts nel film, ha deciso di scappare.

Fino a pochi giorni prima una soluzione del genere non le era balenata alla mente nemmeno nelle sue fantasie più sfrenate; neanche dopo l’ennesima umiliazione subita al Pronto Soccorso, dove una dottoressa, a occhio sua coetanea, le aveva detto apertamente che quei segni sul collo e sulla schiena non erano compatibili con nessuna caduta, e che la smettesse di prenderla in giro, per favore.

Lei era stata zitta e aveva tenuto gli occhi bassi, come quando, a scuola, la beccavano impreparata; si era fatta medicare e incerottare per bene ed era filata a casa a preparare la cena, terrorizzata che lui tornasse da lavoro e non trovasse il piatto in tavola.

Sara arriva al tornello e tira fuori il biglietto, che, nell’agitazione, le cade per terra. Lo raccoglie con mani tremanti e lo inserisce nella fessura.

Con gli occhiali da sole, là sotto, vede a malapena dove mette i piedi, ma non se li toglierà per nessun motivo, così come non si toglierà il cappellino da baseball con la scritta “I love Milano”, comprato appositamente su una bancarella del mercatino di Senigallia per poterci poi nascondere i capelli sotto. Nel film, la Roberts si metteva una parrucca bionda. Lei non avrebbe saputo dove andare a comprarla e, comunque, ha pochi soldi.

Il tornello si sblocca e Sara passa oltre, cercando di non accelerare. Si guarda intorno: nessuno fa caso a lei. Forse, grazie allo zaino e al cappellino, può passare per una turista. Vorrebbe correre, ma non lo fa; fino a stasera, del resto, lui non potrà accorgersi della sua fuga. Non hanno il telefono fisso, a casa, e lei ha simulato uno scippo con conseguente perdita del telefonino, proprio il giorno prima. Lui, naturalmente, si è incazzato di brutto, e le ha urlato che se lei, inutilezoccola, è così stronzadeficiente da farsi derubare dal primo rumenodimmerda che passa per la strada, a lui nonglienefregauncazzo, e il cellulare, almeno per ora, non glielo ricomprerà, ziocane.

In realtà il cellulare Sara ce l’ha nello zaino, ma con un’altra Sim, acquistata ieri.

La sua è andata a lanciarla nel Naviglio Grande, insieme alla fede; così, se mai le ritroveranno, magari penseranno che si è suicidata, o che l’hanno uccisa. Per lei va bene. Le sarebbe andato bene anche morire, fino a pochi giorni fa; ora, però, non vuole più.

Sara è sulla banchina, adesso; il tabellone luminoso comunica che al prossimo treno per Maciachini mancano tre minuti. Avrebbe preferito trovare il treno già pronto ad accoglierla nella sua panciona lucida, ma non tutto può andare come nei film. Ora che è riuscita ad arrivare fin quaggiù si sente più forte: non credeva che ce l’avrebbe fatta. Forse allora è vero che non è quella nullità che il marito sostiene.

Ripensa a sua madre, a quando le ha telefonato, ieri. Non la sentiva da due anni, ma non si è stupita che la voce fosse sempre la stessa, uguale a quella che ha continuato a venire a trovarla in sogno: bassa e decisa, senza mai un’esitazione. Sara, invece, balbettava. Mi aiuterai, mamma? Sì. Posso venire da te, mamma? Sì, figlia mia. Ti voglio bene, figlia mia.

«Anche io, mamma».

Sara lo dice ad alta voce, entrando nel treno della metropolitana, diretta alla Stazione Centrale, da dove ripartirà per Napoli, e da lì per Agropoli, il suo paese. Qualcuno si volta a guardarla, ma lei bada solo a trovare un posto libero per sedersi. Rogoredo rimane alle sue spalle, e anche Porto di Mare, Corvetto, Brenta

Sara tiene le mani posate delicatamente sul grembo, per sentire ancora quel calore forte, rassicurante.

«Ce ne andiamo, piccolo mio,» mormora. E sorride.

In perfetto orario

In perfetto orario (Robin, 2009)

di Luca Rinarelli

Una ragazza su un treno, un uomo con una missione, entrambi stranieri in una Torino umida, notturna, scarna. Così inizia questa piccola opera di Luca Rinarelli, già autore di volumi dedicati alla fotografia ed esordiente nel noir.

Pur mantenendo alcune delle caratteristiche formali del genere, In perfetto orario si configura come un romanzo della disperazione. Non vi è un solo personaggio che animi questa storia che non sia l’immagine della miseria, vittima di catastrofi legate nei modi più svariati al tema del lavoro, dal padre che perde la figlia bambina, alla ragazza russa scivolata nell’abuso, alla giovane votata al precariato economico ed esistenziale. Tutti aspirano a una forma di redenzione, e l’omicidio sembrerebbe il mezzo per la realizzazione di un riscatto sociale, senonché l’impossibilità del riscatto lo trasforma in atto di pura rivalsa sull’umano. Per fare un noir servirebbe la suspense, qualcosa che mantenga appesi al finale. Qui si rimane invece incollati all’ambientazione e a un vuoto post-industriale, in cui il killer non corrisponde al personaggio tipico se non per alcuni tratti derivati dalla lunga e nobile tradizione del genere. In realtà, anche lui tenta il suo riscatto, come gli immigrati afflitti da una vita senza radici né appartenenza, persi nella Torino reduce da una crisi industriale senza precedenti. Immigrati che giungono da varie parti di Europa per rimanere in questo luogo inospitale attratti da null’altro se non la pura sopravvivenza. Accanto a loro, giovani italiani le cui storie si intersecano con quelle degli immigrati in rotte casuali o determinate dalla necessità. Poco differenzia la ventenne torinese che stringe una relazione con Werner dalla prostituta russa sottratta a forza dal paese natale sul Volga e trasferita in una città a lei aliena. Solitudine, disgregazione, povertà, precariato estremo costituiscono i comuni denominatori delle vite che popolano questo piccolo romanzo anticapitalista. La lingua breve ricalca le strutture metalliche della periferia industriale e le pareti spoglie delle associazioni di supporto ai senza fissa dimora, scenari del romanzo insieme a piazze notturne vuote eccetto per bar affollati, luoghi di incontri causali, in una poetica dell’anonimato in cui a stento prendono vita dialoghi scarni, al netto di qualsiasi eccedenza di umano, fra i cristi spogli che Rinarelli ritrae trafitti dalla vita. Priva di elementi consolatori, questa piccola opera è una forte denuncia di una condizione umana intollerabile, e un auspicabile fire-starter di una narrativa dell’esclusione sociale di cui da tempo si avverte la mancanza.

Il finale è accattivante, anche se la raccomandazione è di non soffermarsi unicamente sull’intreccio e lasciarsi piuttosto sprofondare nell’atmosfera malinconica e notturna, veracemente padana, di un’Italia che non lascia più spazio all’ottimismo della volontà.

 

Claudia Boscolo

 

 

Poesia precaria (selezionata da L. Piccolino) – 10

Io e Rolando Agostini viviamo nello stesso quartiere ma non ci conosciamo da molto. Un paio d’anni o poco più.

Un grande poeta non sempre riceve ciò che merita. E non sempre capita di incontrarlo, un grande poeta. Io l’ho incontrato, viveva a due passi da casa mia e non lo sapevo.

Probabilmente se Rolando Agostini avesse avuto un altro carattere e maggiori possibilità, sarebbe ora riconosciuto e celebrato dall’establishment letterario italiano.

Rolando Agostini nasce a Roma il 25 agosto 1950.

Si innamora contemporaneamente sia del cinema che della scrittura.

La visione dei film di Stanley Kubrick infatti, lo spinge a dare inizio a una produzione fatta di miriadi di poesie e piccoli racconti.

La vita di Rolando è stata dura.

Ha vissuto per parecchi anni di espedienti, sempre in bilico tra il bene e il male. Ma anche questo periodo è stato utile alla crescita delle sue doti di osservatore della società cosiddetta “civile”

Ancora oggi Rolando si diverte a raccontare quei tempi:

“Dopo aver ascoltato Guccini cantare La Locomotiva, decisi di fare un furto alle ferrovie di stato!”

“Ero entrato in una condizione economica da benestante e le persone intorno a me mi criticavano e si rodevano di invidia. Oggi che non c’ho na’ lira, le cose non so cambiate per niente!”

Nel 1994, dall’opera Chissà quanta gente (a tutt’oggi inedito) viene estrapolato, dal regista Paolo Brunatto, un cortometraggio messo in onda su Rai Educational.

Nel 2008 pubblica Il Sapore della Luna Cruda (Arduino Sacco Editore).

Il libro, composto da centotrenta poesie, è un magnifico gioiello che celebra la caratura di un autore fuori dal comune per talento e personalità.

Luca Piccolino

DEMONIO E POETA

Come mi sento bene quando mi sento

un demonio, un poeta.

La cocaina, l’eroina, il successo

i miliardi mi fanno sorridere

e infatti sorrido.

Di solito mi fanno schifo.

E l’infinito è un’unghia sporca

a confronto della solitudine

e me ne torno a casa come una serva negra

come un pazzo che sa che troverà

la casa come un vestito di mattoni.

E quando spezzano il tuo cuore

d’innamorato, ce n’è sempre un’altra.

Altre! 2, 3 o 4.

Se potessi scegliere tra te e il paradiso

io solo te.

E i soldi non sono fiori

lo sono invece le razze

con i loro colori.

Tutta roba vecchia che è andata in putrefazione.

E la gente se ne va

in giro con i cuori

dentro i preservativi.

Rolando Agostini